Se si cancellasse una settimana di ferie, il Prodotto Interno Lordo crescerebbe di un punto percentuale. E’ quanto si legge in questi giorni sui maggiori quotidiani che riprendono la proposta del governo di eliminare alcuni giorni di ferie, farcita di insensate previsioni sui presunti effetti positivi dell’aumento forzato di ore lavorate nel nostro paese.
In primo luogo non possiamo non ricordare che l’Italia è già uno dei paesi in cui si lavora di più, come mostra il grafico seguente.
OCSE: ore lavorate per addetto in un anno, anno 2010
Non si capisce in base a quale ragionamento un ulteriore incremento delle ore lavorative produrrebbe di per sé crescita economica. Se fosse così semplice, la Grecia dovrebbe essere il paese più ricco d’Europa.
E’ del tutto infondata l’idea che lavorare di più significhi crescere di più, ed il motivo è semplice: il PIL è dato dalla somma di consumi, investimenti, spesa governativa ed esportazioni nette (cioè la differenza tra esportazioni ed importazioni) più altre variabili minori. Non c’è nessuna ragione per la quale l’aumento di ore di lavoro annuali dovrebbe incrementare significativamente una di queste grandezze (anzi, la diminuzione di tempo libero potrebbe arrecare danno al settore turistico).
In presenza di una domanda calante, o nel migliore dei casi costante, un maggiore volume di lavoro porterebbe al limite ad aumentare le scorte, che vengono di norma conteggiate nella contabilità nazionale (si tratta comunque di una componente di scarso peso), se gli imprenditori decidessero di sfruttare le nuove ore “gratis” per aumentare la produzione. Ma persino questo è improbabile: considerando le aspettative negative (il 2012 vedrà un calo del PIL del 2,4% secondo Confindustria, dell’1,9% secondo il FMI e per il 2013 si prevede un’ulteriore contrazione dello 0,2 – 0,3 per cento, a seconda delle stime) le imprese saranno indotte a produrre di meno, non di più, anche nella speranza di smaltire l’invenduto del periodo precedente. Non si può quindi ragionevolmente prevedere nessun effetto positivo sul PIL.
Quale sarebbe dunque l’effetto di una diminuzione dei giorni di ferie e quindi di un aumento delle ore lavorative? Anche qui il ragionamento è semplice. Se le imprese decidono di produrre lo stesso quantitativo di beni e servizi dell’anno precedente, e se ogni lavoratore avrà un orario annuale più lungo, le imprese avranno bisogno di meno lavoratori. Se il mercato del lavoro fosse totalmente flessibile, ciò si tramuterebbe immediatamente in una maggiore disoccupazione, come ad esempio hanno mostrato Krugman ed Eggertsson con il “paradox of toil”, il paradosso della fatica: se tutti decidiamo (o se ci viene imposto) di lavorare di più, serviranno meno persone per realizzare gli stessi beni.
Per fortuna il mercato del lavoro presenta ancora qualche residua rigidità in uscita, nonostante la sostanziale abolizione dell’art.18, il che può eventualmente indurre i datori di lavoro a programmare la produzione di più merci a fronte di più ore di lavoro disponibili, abbassando il prezzo di tali merci, nella speranza di venderne di più. Ciò sarebbe possibile considerando che il salario dei lavoratori rimarrà invariato, anche se lavoreranno più ore. Tuttavia va tenuto conto che la produzione di più merci richiede più materie prime, che hanno un costo; pertanto questo discorso ha meno peso di quel che sembrerebbe a prima vista, soprattutto nel settore industriale.
L’abbassamento dei prezzi porterà ad un aumento della domanda e quindi alla ripresa? E’ improbabile. Durante una fase di crisi, la tendenza è favorevole alla contrazione della spesa e l’aumento del risparmio. Anche una diminuzione del prezzo non necessariamente significherà un aumento dell’output, come ad esempio accade nel modello illustrato da Emiliano Brancaccio nell’Anti-Blanchard.
La diminuzione dei prezzo (retta dell’offerta che passa da AS a AS’) non porta ad un aumento dell’output (Y). Tratto da “Anti-Blanchard”, di E.Brancaccio e semplificato per questo articolo da Keynes blog
Si potrebbe tuttavia obiettare che la diminuzione dei prezzi renderebbe le merci italiane più competitive sui mercati internazionali e quindi stimolerebbe le esportazioni. Può darsi, e comunque entro i limiti giustificati dalla cosiddetta “competitività di prezzo”, che sono divenuti però sempre più ristretti, a fronte della cresciuta importanza dell’innovazione di prodotto. In ogni caso, in un momento di “recessione coordinata” come quello attuale, il traino dei mercati esteri sulla domanda appare plausibilmente assai poco significativo in relazione all’eventuale abbassamento dei costi realisticamente possibile con l’aumento dell’orario di lavoro annuale. Ben diverso sarebbe, per dimensioni e quindi efficacia, l’effetto di una svalutazione della moneta, come accaduto negli anni ’90.
Come abbiamo più volte sottolineato, i problemi di produttività del nostro paese non sono certo legati a orari troppo corti o ad un mercato del lavoro troppo rigido, ma in primo luogo a fattori, per così dire, “sul lato del capitale”: specializzazione arretrata e frammentazione del tessuto produttivo in imprese al di sotto della dimensione ottimale.
Pertanto la riduzione delle ferie, in questa fase, avrà nella migliore delle ipotesi un effetto nullo o poco significativo sul PIL. Nella peggiore, potrebbe addirittura incidere negativamente sull’occupazione.
Ben altra è la scala dei problemi e ben altre dovrebbero essere le soluzioni. Continuare a insistere sul lato dell’offerta, caricando sui lavoratori il peso di ogni “riforma strutturale”, non ci tirerà fuori dalla recessione nel breve periodo e non assicurerà la crescita nel lungo. Anzi, è possibile che non farà altro che peggiorare le cose, facendoci per giunta perdere tempo prezioso.
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