Ieri era il I Maggio, comunemente conosciuto come festa dei lavoratori: sembra un crudele scherzo del destino che, proprio in questo periodo, il Parlamento stia lavorando per rinnovare, per l'ennesima volta, il mondo del lavoro, con il Jobs Act renziano.
Il dl lavoro, passato alla Camera, aspetta ora le forche caudine del Senato, dove, con molta probabilità, saranno introdotte altre variazioni, sempre, però, nell'ottica della flessibilità, diventata ormai il dogma del lavoro in Italia. Che sia la strada giusta o quella sbagliata (personalmente, propendo per quest'ultima), si va avanti.
Poco importa se, nel frattempo, il provvedimento sia solamente la pallida imitazione di quello che il rottamatore aveva promesso: dov'è il contratto unico a tutele crescenti? Dov'è la riforma degli Uffici per l'Impiego? Dov'è il reddito minimo? Tutto finito – volutamente – su un binario morto, mentre viene messa in dubbio la stessa legittimità del provvedimento.
L'importante è flessibilizzare il lavoro, è solo così che ci sarà la ripresa. Non conta che, innanzitutto, non esista nessun nesso causale tra precarietà e crescita; non conta che leggi simili, in economie simili alla nostra, come la Spagna, abbiano sostanzialmente fallito, non intaccando assolutamente la corsa verso l'alto della disoccupazione.
Basta fare un raffronto con la realtà: la politica ha introdotto i contratti precari per far fronte alla crisi; quindi, in teoria, grazie a questo strumento la disoccupazione avrebbe dovuto, non dico calare, ma almeno rallentare. Invece, mentre i contratti atipici esplodevano, la disoccupazione macinava record su record. Dov'è, quindi, il vantaggio del precariato?
Si obietta che, in Europa, si adottano le stesse politiche flessibili, che l'Articolo 18 è solo un'anomalia tutta italiana. Vero, ma è anche vero che, negli altri Paesi europei, esistono tutele per i lavoratori precari, che in Italia possiamo solo sognarci.
Siamo l'unico Paese dell'Unione Europea, insieme con la Grecia, a non avere il reddito minimo garantito; siamo al 23esimo posto su 28, per la spesa sociale a sostegno dei disoccupati; siamo uno dei pochi Paesi dell'UE a non avere una seria politica di reintegro attivo al mondo del lavoro, per disoccupati e neet (dati Ocse).
Siamo, invece, i primi della classe, quando si tratta di sprecare buone occasioni, come sta succedendo con il programma Garanzia Giovani. Durante un'intervista, il ministro Poletti ha annunciato che, dal I Maggio, il programma sarà attivo, dimenticandosi, però, di parlare, anche, dei pesanti ritardi sul progetto, che affliggono molte Regioni.
Siamo, inoltre, l'unico Paese al mondo che si intestardisce a voler fare riforme a senso unico: per far ripartire l'economia, uscire dalla crisi e rimettere in sesto un'Italia stanca e stremata non basta certo fare una riforma del lavoro all'anno.
Eppure, è esattamente quello che è successo negli ultimi decenni: nessun intervento per fermare il declino del settore metalmeccanico, nessun investimento nella ricerca, niente progetti per favorire lo sviluppo delle new economy (internet, energie rinnovabili), nemmeno la più pallida intenzione di redigere un piano industriale nazionale, nessun programma di riforma e sviluppo del turismo e della cultura.
Solo riforme contro il lavoro, solo precariato: tanto i ristoranti sono pieni e 80 euro bastano per uscire dalla crisi.
Danilo