"Autoritratti, iscrizioni al femminile nell'arte italiana contemporanea " (al Mambo di Bologna, maggio-settembre 2013)
“Autoritratti” è un progetto collettivo nato alla galleria d’arte moderna di Bologna dalla collaborazione di 42 artiste e diverse curatrici per presentare
una ricognizione, uno spaccato del rapporto tra donne e arte in Italia negli ultimi decenni. Una molteplicità di posizioni e di pratiche artistiche,
attraverso diverse tematiche e le più svariate modalità espressive- pittura, video, installazione, fotografia- percorrono strade proprie per iscrivere la
differenza significante di un’arte, d’ una modalità del fare artistico che parta da un punto di vista specificatamente femminile. Centrale resta il tema
della ricerca o della definizione d’un identità personale e di genere soprattutto in relazione alle modalità sociali o estetiche esistenti, implicito nella
scelta del titolo “autoritratti” articolato attraverso una serie di proposizioni multiple, individuali, diversissime tra loro. Autoritratto è immagine del
sé, immagine pensata o interrogata a partire da un punto di vista interno al femminile che implicitamente rovescia, decostruisce o ironicamente deride una
serie di proiezioni, stereotipi o posizioni che oggettivano il soggetto “donna” a partire da un punto di vista a lui estraneo, sia essa la veste ideologica
che lo comprime dentro il rituale sociale o lo sguardo oggettivante, maschilista, repressivo e dominante della rappresentazione storicamente in atto. La
diversità delle pratiche artistiche qui presentate è riconducibile dunque al progetto comune di trovare una propria visibilità identitaria e artistica
attraverso una modalità differenziale del fare arte espressa da artiste donne, capace di esercitare un impatto sulle forme e le estetiche dominanti negli
ultimi decenni. L’esperienza corporea, la centralità d’un sé corporeo e performativo diventerà sempre più centrale in queste proposizioni come spazio di
visibilità o di interrogazione del sé , implicito luogo d’auto-coscienza o forse solo di indagine e di sconfinamento sulle possibilità e i limiti della
soggettività femminile.
Maria Antonietta Trasforini, “La bella indifferenza”, Indagine sull’isteria (1980)
Nella sua personalissima indagine sull’isteria al femminile alla fine del xix secolo Trasforini partendo da ricerche svolte sugli scritti di Charcot e da
una serie di immagini della raccolta documentaria di pazienti donne alla Salpetrière verso il 1870, “Iconographie Photographique”, approda alla proiezione
video d’una serie di autoritratti di donne accompagnati da pagine manoscritte di riflessioni, riferimenti intertestuali, note a metà cancellate d’un
abbozzo di saggio mai terminato che non potendo fare a meno di perdersi, interrompersi, derivare, smarrire il filo del proprio pensiero, ci riporta
direttamente all’immagine fotografica come vero luogo di interrogazione e di ricerca identitaria del femminile. L’immagine è qui investita d’una violenza
figurale che ne lacera la forma, nel gioco di forze conflittuali implicitamente iscritto in questi corpi della patologia giocati tra rimozione e desiderio.
Tali ritratti di volti e corpi colti in crisi isteriche, epilettiche o altro si impongono nella loro opacità di figure in tuniche ospedaliere e vesti
discinte, nel pieno dell’attacco con volti rapiti, capelli disfatti, scomposti, sguardi estatici e attitudine estetiche naturali, perfino mistiche a volte
di trasfigurazione o rapimento visibili sui loro volti. In altre fotografie appaiono nella rigidità dell’abito, della posa, della postura imposta al
soggetto femminile alla fine del xix secolo, nella chiusura reale e metaforica di baveri, vesti, colletti, nell’aggiunta di cuffiette e trine, o ancora
nella posa catartica del momento estatico come uscita da sé qui provocata dall’esubero di cariche psichiche inconsce.
L’artista considera tale esperienza in margine per quel legame primario, indissolubile che il corpo- parola stabilisce con l’inconscio, il corpo visto come
luogo di sofferenza e di rivolta generando nell’esperienza, in maniera sintomatica, un’iscrizione differenziale del soggetto donna, un’incisione
identitaria rivoluzionaria per la fine del xix secolo.
Il corpo isterico è già di per sé nei suoi gesti e pose “teatro d’un corpo vivente”, azione voluta o incoscientemente indotta che provoca o muove azioni
altrui, “rimozione non riuscita che sfugge al controllo dell’io ritornando sotto forma di sintomo, ricordo doloroso che non riesce a oltrepassare il muro
della coscienza, parola agita che ricorre alla complicità di spettatori-attori-reattori” (Trasforini). Tali fotografie nate dalla necessità di descrivere
la malattia, di classificarla o astrarne una casistica documentaria per ragioni mediche stabiliscono, inevitabilmente, un legame con uno sguardo artistico
gettato sulle medesime perché questi volti o modi di figurare liberano la soggettività femminile anticipandone in qualche modo, se pur paradossalmente,
alcune rappresentazioni della modernità; portano in sé, implicitamente, una “vocazione espressiva o teatrale”, nell’estremo sintomatico in cui si
realizzano. Rivelano gesti o volti altamente espressivi drammatizzando al massimo grado una casistica che normalmente rientrerebbe nella norma di
comunicazione del quotidiano.
Nelle fotografie sono gesti o volti di donne alla Salpetrière alla fine del xix secolo riprese in abiti lunghi e austeri conformi alla norma dell’epoca
eppure nel contrasto di sguardi fieri, assolutamente rapiti, estatici, passionali, in altri frangenti vuoti, assenti a loro stessi. Un senso di pudore, una
distanza voluta s’ interpone tra l’atto fotografico e i volti di queste donne come per sottrarle a un voyeurismo gratuito degli spettatori. Appaiono in una
estrema drammatizzazione seppure non voluta di volti e pose indotte dal momento sintomatico, in una innata, enfatica espressività dei loro volto, quanto,
allo stesso modo, nel pieno di crisi letargiche in una intensa vacuità, assenza o volatilizzazione del loro spirito come del respiro vitale in loro.
Involontarie protagoniste d’un “romanzo collettivo”, queste immagini si situano allo spartiacque tra rivalsa identitaria o di genere e deriva patologica
della medesima nel sintomo inconscio, su questa linea di condivisione tra iscrizione significante, espressiva di gesti e pose d’un soggetto femminile fino
ad allora misconosciuto o cancellato e, dall’altra, nell’esasperazione enfatica di pulsioni rimosse o fissazioni psichiche inconsce ritornando
dispoticamente in forma patologica.
Anna Valeria Borsari, “Autoritratto in una stanza”.
“Sono entrata in quella stanza per eseguire il mio ritratto. Ho portato con me una videocamera, una macchina fotografica con cui documentare la ricerca,
una matita per un progetto di lavoro, terra umida del volume del mio corpo con cui riprodurlo.”
“Ho cercato di studiare dall’esterno il mio corpo”; nella serie fotografica compaiono impronte di mani, un ritratto di sé attraverso le medesime disegnato
a matita su carta. “Ho cercato di misurarmi con la stanza”; l’iscrizione dell’anatomia della corpo dentro una circonferenza disegna la figura umana nello
spazio sul modello dell’uomo vitruviano di Leonardo. “Ho cercato di studiare l’interno della mia stanza”; vediamo nella foto un angolo di muro, un
cornicione arrestato contro la parete chiudendo lo spazio nella piega ortogonale della sua estremità in angolo. Nell’immagine seguente la terra è deposta a
mucchio su una tela, poi scavata in un impronta fittizia del corpo, l’impronta del sé, autoritratto come scavo, traccia che insieme delinea e svuota
l’interno d’una presunta figura. “Prima di uscire ho atteso che la terra si asciugasse poiché si trovava sul pavimento”. Dal contorno esterno del corpo,
l’attenzione è portata dentro la stanza, poi sul sé nello spazio in relazione all’esterno. La necessità di vedere e d’essere visti a conferma del proprio
esserci, il desiderio di trovare uno statuto del sé, identità e completezza all’esterno, nel mondo attraverso tracce, segni che si possono lasciare,
“supera l’istinto di morte o quello regressivo” (Borsari) generando l’evidenza creativa d’un tracciato video, qui fissato in immagini fotografiche
attraverso una serie d’azioni performative. L’autoritratto non è dunque solo pensato come affermazione individuale, l’imposizione d’uno stile a sé, il
soggettivarsi d’un interiorità all’esterno ma, in primo luogo, come uno “scolpire sé stessi in relazione allo spazio in cui si è inclusi” nella necessità
d'un rapporto di interazione o continuità all’altro in una implicita connettività. E’ un partire da sé, dalla posizione del sé per arrivare a uno
stare-nel-mondo attraverso questa serie di passaggi performativi delineati in immagini cercando di giungere o di ricongiungersi agli esseri, alle cose
anziché volerle riportare a noi, volerle dominare nel modo più individuale possibile; è un agire a partire da questa doppia consapevolezza dell’esserci e
dell’essere per il mondo.
Valentina Berardinone, “A Flying attitude”
Tessuti colorati sospesi in aria, appesi a un filo di canne di bambù, fotografie e disegni appesi a spilli su un muro simili a schizzi scenografici, frasi
scritte a matita, annotazioni appena leggibili, una poesia della Dickinson trascritta sulla parete: “desiderio di fuga, un pulsare interno del sangue alle
vene, improvvisa attesa, disposizione al volo”.
Acrilico su tela grezza, arancio, blu, indaco, bianco, sospesa a un filo di bambù. Il vento si leva attraverso la finestra, lo spirito si sospende
attraverso il tessuto; "tutto è dentro, dal labirinto non esci" affermano le parole. Dal mondo chiuso della stanza corri verso un passaggio mai percorso
prima, “dal labirinto all’aperto più lontano esci oltre le frontiere del giardino”. Poca luce nell’improvvisa attesa, la parola fuga è già lontana, quasi
un’ombra senza più sapere nulla delle direzioni, dove il centro. Premonizione d’un futuro già vissuto, anteriore, precorso e come già esperito nella
sospensione del presente, nell’incertezza di un vago “a-venire”, è attitudine al volo.
Goldichiari, “Autoritratto”
Piantate in un bosco, con i piedi insabbiati nella terra, piantate dentro la loro storia, vestite identicamente in nero eppure diverse nei tratti, nei
lineamenti e nelle parvenze, sprofondano fino a metà caviglia in mezzo a quella radura boschiva sottraendosi al nostro sguardo. Due figure femminili, gli
occhi chiusi, due doppi simili e opposti.
Viste in questa distorsione voluta del viso, nel loro ritrarsi dalla telecamera, nella duplicità d’un sé espanso, biforcato in due figure speculari e
divergenti eppure ricondotte qui a un’unica radice d’arresto dentro il fondo boschivo, lì piantate a fissare la terra. Piedi bloccati, sguardo abbassato
che sfugge il nostro, identiche eppure opposte nell’immobilità apparente, nella posa schiva del loro definirsi in assenza, mostrarsi sottraendosi.
Maria Lai, “legarsi alla montagna”, (performance 1981)
Nastri disposti lungo le facciate, attraverso le strade, l’azzurro richiama il raggio celeste, simbolo di salvezza per intervento divino secondo la
leggenda tramandata nel paesino sardo d’una bambina salvata da questa folgore bluastra attraversando il cielo per impedirle di restare schiacciata sotto
una grotta in disgregazione. In una sorta di performance collettiva una tela blu di tessuto viene ritagliata in una linea di fili tesi e sospesi, tirati,
intessuti fra le cose per legare porta a porta, finestra a finestra, persona a persona in modo diverso secondo che fosse conflitto o amicizia, astio, amore
o indifferenza in un giorno prestabilito, nel luogo prescelto per il rito collettivo. L’idea del tendere questo filo continuo attraverso le strade, i
vicoli, i sentieri, tra le facciate strettamente connesse le une alle altre, misere o fastose, vecchie o nuove, per le strade fino in cima allo strapiombo
roccioso della montagna intendeva dare vita a un rito unificante, comunitario e solidale capace di riannodare il legame tra persona e persona, spazio e
mondo, individualità e alterità contro un chiudersi alla propria dimora, contro un sollevare barriere di separazione o separatezza gerarchica o di potere.
Il territorio reale diviene allora uno spazio simbolico attraversato da questa infinità di fili e contro-fili tesi in una virtuale connettività di tutti al
tutto per una volta immaginata come evento politico, democratico, partecipativo reso possibile dall’atto performativo.
In “racconti del lenzuolo” ugualmente, una tela intessuta, riempita di fili e ricucita a riquadri di stoffa è esposta nella grande parete di fondo della
galleria; nel suo indecifrabile ordito materico riquadri come lettere o pagine manoscritte si susseguono l’una all’altra, riempite di segni nella
simulazione di questo libro-autoritratto. Lettere indecifrabili sul tessuto-lenzuolo iscrivono le trame della sua più intima esistenza nell’evidenza d’un
oscurante traccia materica. Lenzuolo-ordito, lettere a-significanti nel luogo di passaggio verso una resa plastica, una densità opaca di segni investiti
della forza della loro più autentica esistenza.
Ancora è un cucirsi addosso un colletto, sulla pelle con un ago nella performance filmata di Silvia Giambrone, dove si sperimenta la violenza
dell’atto direttamente sullo spazio-teatro del corpo, il medesimo divenendo vero e proprio “teatrino anatomico” al centro della performance.
L’atto è perpetuato con freddezza, con distacco, in maniera programmatica e senza intromissione emotiva possibile. Il contrasto è evidente tra la tessitura
lieve del pizzo-merletto bianco e l’ago in metallo acuminato visto infiltrarsi, passare freddamente attraverso la pelle lasciando nel passaggio una
cicatrice livida e rossastra. La performer guardandosi allo specchio, si scioglie i capelli poi senza alcun commento, lentamente riallacciandosi la camicia
osserva la linea della marcatura a fuoco disegnata sul collo. Il collare in merletto resta cucito in quel punto a fuoco sul corpo come metafora, segno
visivo lì inciso e impresso, sia esso lascito d’una storia, d’una educazione, d’una genealogia famigliare, d’un passaggio o passato che si è lì marcato
addosso, cucito a fuoco sulla sua pelle.
In un’altra serie visiva un merletto nero ricopre il volto di più figure immortalate in foto d’album di matrimonio, in bianco e nero, il giorno della
celebrazione dell’evento. Il montaggio rivolta e denuncia, resiste lo stereotipo dell’immagine femminile oggettivata nella rigidità delle posa,
nell’apparenza immacolata dell’abito, nella bianchezza atona del gruppo, nella perfezione formale nella foto di famiglia. Aggiunge ad essa in montaggio
fotografico lo stridore contrastante d’una nera trina che copre i volti di queste figure come per occultarne i tratti, la loro vera identità . Quasi si
volesse ironicamente decostruire un’immagine femminile investita di proiezioni identitarie oggettivanti provenienti dal discorso sociale o fissate da un
punto di vista estraneo che reprime e limita il loro vero essere.
Grazia Varisco, “Bianca e volta” 1983
E’ alluminio bianco dipinto ripiegato su alcuni margini come la piega delle pagine di libri che in una riproduzione tipografica mal riuscita risultano
ritagliate sui bordi; la piega dell’ eccedenza sui confini del formato pagina, la piega del caso, dell’incidenza “che non prevista accade”, dell’esistenza
che si rivolge, si piega su sé stessa come su una pagina bianca o sul supporto d’una nuda parete. Diviene in questa installazione come afferma l’artista: “
il sé irriducibile, irrinunciabile del dubbio o della probabilità che in arte pratico quasi inconsciamente ma che poi riconosco”.
Se la pagina bianca è per Varisco un microcosmo ordinato, chiuso, finito, un “tutto uguale, normale, ortogonale”, il mondo è di fatto un labirinto o
groviglio irriducibile per quella parte di caos o d’accidente che d’ esso si misconosce, s’occulta o si nega. L’opera, dunque, diviene ennesimo pretesto
per “verificare l’interferenza tra caso e programma, di quella parte di casualità che non essendo ipotizzabile non ha nome”. Quel quid impossibile
a prevedere che agendo in tempi e spazi differiti “galleggia, vaga e si sposta e poi ricompare in ogni presenza”. L’opera dunque è questo gioco nato da “un
niente che non deve capitare ma che a volte si trova tra le pagine proprio come uno scarto, un balzo, un brusco divergere dalla norma”. E’ forse l’evento
dell’insinuarsi di quell’eccezione che fa si che il sistema sia, oppure la semplice presa in conto di tale bordo del pensiero come avvenimento
dell’esistente.
Margherita Morgantin
, allo stesso modo, nella sua sequenza visiva di numeri primi immagina un papiro infinito di carta stampata espandendosi verso l’alto simile a rullo che si
dispiega illimitato verso il soffitto e oltre stampato da una sequenza visiva di numeri primi, non divisibili, non ripetibili, figurati come minuscoli
quadretti rossi combinati insieme. Nel suo grafico di visibilità cosmica punti, singole monadi si attirano, si ricompongono dalla più piccole unità in
forme complesse. Il suo universo matematico è misurabile in tutti gli elementi ma irriducibile nelle possibilità combinatorie che da essi scaturiscono.
“Autoritratti”come iscrizioni al femminile attraverso il video
Nell’immagine estratta dal video “sulle tracce di Lygia Clark” di Paola Anziché, sono ancora fili, corde tese colorate o ravvolte in strane
contorsioni intorno a un viso e molteplici gesti di mani ripresi nell’atto di avvolgere, arrestare, serrare un corpo, soffocare, reprimere, comprimerne la
sua propensione al movimento, contendersi la figura tessendo su quella un’impalcatura di fili colorati simile a un ordito fittamente intrecciato ma d’una
trama evanescente, leggerissima, quasi impalpabile.
Una tela di ragno rossa e gialla s’espande e si restringe attraverso lo spazio del corpo percorrendolo nelle sue diagonali fino a toccarne le estremità di
mani e piedi. Giunge ad addensarsi a nido, a cunicolo di fili aggrovigliati e informi intorno al torso, al collo, al torace, poi appare svaporare in linee
di fumo semi-concentriche sopra la testa disfacendosi per andare a morire da qualche parte lasciando vaghe scie fumose su un fondo smussato e grigiastro.
L’impalcatura di fili così intessuti nella performance verrà, infine, sollevata come gabbia iconografica dal corpo immobile lì ad occhi chiusi disteso;
tale la zavorra o il lascito che lo costringeva, l’involucro che lo comprimeva nella sua esterna sedimentazione.
Goldiechiari, “anygirl” 2012 (video ispirato a un evento di cronaca nera, l'omicidio Montesi del 1953)
Oceano-mare, il rifrangersi violento di onde a riva, tracce sulla sabbia, d’un sol colpo cancellate nel dissolvere delle acque contro la terra, nel loro
dissipare in lieve, bianca schiuma.
Allungato sulla sabbia, disteso contro la riva nell’andirivieni incessante delle maree, spazzato via dal vento, un corpo naufrago è deposto privo di vita
dalle acque che lo ricoprono prima di ritrarsi e ritornare al moto incessante delle correnti, allo sciabordio violento delle ondate agli oceani. I suoi
piedi nudi sono lavati dalle maree, poi le sue mani, le sue gambe inerti. Occhi aperti, fissi, immobili sulla morte. Ora nelle immagini a colori successive
in una visione sognata lo stesso corpo appare in un controluce d’ombra sollevarsi, saltare, correre tra le acque, poi allontanarsi da riva procedendo verso
la banchina. Vediamo sabbia in impronte di piedi su un bianco e nero telo, poi la sua corsa contro le acque con un drappo svolazzante tra le mani
nell’idealità del risveglio, nel riemergere dalla morte per acqua. Qui l’immagine dissolve d’un tratto nel video, si rifrange, si infrange liquida in
punti, tracce, macchie di rosso sangue. Segue l’irradiazione bianco-luminosa dell’intero schermo.
Alessandra Spranzi
“Nello stesso momento”, spazi abitati provenienti da situazioni diverse, collage d’ oggetti su vecchie fotografie di case in mobilio desueto creano uno
spazio inusuale dove ambienti e cose poste separatamente vengono a esistere “allo stesso tempo”, simultaneamente. Creano spazi immaginifici, estranei
eppure materialmente desiderosi d’essere insieme, spazi virtuali nati da questa connettività del collage, adattandosi all’impossibilità d’una reale
coincidenza. L’estraneità a ciò che è conduce all’apertura verso nuovi ordini visivi, inconsueti e immaginabili.
Interni d’ appartamenti borghesi, vacui, arrestati nell’immobilità dell’istantanea fotografica in piccole polaroid stile anni ‘70 entrano in contatto con
“l’invisibile, l’inconsueto, l’insondabile aperto in loro” : mazzi di fiori su carta da parati in salotto opaco di vecchia cartolina, bottiglia su tavolo
incolore e scialbo, macchia rossa di tessuto su divanetto minimalista, specchi e cornici contro un vano tv spento, due volti riflessi di donne scriventi su
quello, tovaglia a fiori entro angolo di cucina piastrellato, bottiglia e bicchieri su tavolo apparecchiato ma vuoto, fiori di carta dipinti su salotto con
quadri e ceramiche, antro tv accesa su carta bigia da parati, collage con sedie colorate su parete bianca e spenta.
Marion Baruch
, infine, da vita a un vero e proprio “autoritratto a più voci” partendo da materiali residuali di produzione tessile industriale; i suoi “ready made”
vengono da lei rinominati “ready resti”. Ritagli di tessuti divengono l’abito di Eva Hesse, omaggi a celebri artisti come John Cage o Yoko Ono, un
pianoforte, un teatro, una “madeleine”. L’identità nasce attraverso il taglio o il ritaglio del tessuto, non è l’oggetto ma il suo interno svuotamento, il
suo lascito, il suo residuo. Sono le cose che ci portiamo addosso, che si sovrappongono, sedimentano, stratificano in noi come memorie, antiche o recenti,
genealogiche o personali ma anche quelle che si ritagliano, che si iscrivono in noi svuotandosi, che si perdono per la maggior parte come questi tessuti di
cui non restano che bordi, residui, sottili margini.
Le opere della Baruch, dunque, divengono questi gusci esterni scavati, ritagliati invisibilmente in leggerissime strutture, quasi gli scheletri ossei che
restano dallo svuotamento della reale figura. Ed è in questo ritaglio che le identità appaiono, multiple, in controluce, in rapporto immersivo alle cose o
alla loro residuale presenza come grandi bianchi vuoti che appena sostengono le strutture evocate degli oggetti o i loro fragili lasciti. Tele intessute
sul vuoto si stagliano lievi in armoniosi ricami sul nulla. (elisa castagnoli)