Mario Ceroli, “faccia a faccia” al Mambo di Bologna (dicembre-aprile 2013) di Elisa Castagnoli
Un solo corpo architettonico e sculturale nello spazio immenso investito dalle opere di Mario Ceroli al Mambo di Bologna da vita a un attento gioco di
rimandi tra le sculture in legno dalle proporzioni smisurate, i quadri e gli oggetti in diversi materiali: metalli, terra, polveri, carta o altro. Le
installazioni creano uno spazio-opera totale, spazio inventato dall’artista come un percorso performativo, scenografico per così dire, riempito di
differenti momenti o esperienze plastiche o pittoriche che entrano in dialogo tra loro, a partire dalla loro intrinseca fisicità, interagendo oltre il
tempo cronologico della loro prima provenienza. Come in una grande opera in situ, Ceroli mette in scena il suo lavoro in senso performativo per quello che
diviene in questo luogo portandosi entro la sua verticalità dominante, antro centrale scavato nella profondità spaziale d’una ex fabbrica del pane di cui
la galleria conserva ancora l’ossatura, lo scheletro originale e l’altezza smisurata.
Tale spazio-cattedrale dove gli oggetti, le opere silenziosamente entrano in contatto tra loro vuole essere pensato come luogo di confronto, di dialogo o
forse, semplicemente, di interrogativo aperto posto giustamente in questo “faccia a faccia” metafisico evocato dal titolo dell’esposizione tra la
finitudine del soggetto e la sua duplicazione nel pensiero, nel linguaggio verso un infinità che può essere invocata, immaginata, pensata o meglio qui
posta come un interrogativo di linee che s’aprono verso l’alto senza saperci dare risposta certa sulla loro direzione o provenienza. Dominano la
verticalità di scale e altri oggetti sospesi, tendenti verso l’alto, l’ altrove come la ricerca del senso, dell’umano, del divino, del sacro forse a
partire dalla pienezza sensuale della materia, dalla carnalità del mondo, il legno scolpito in primo luogo.
Domanda inesausta che rimbalza come un’eco in questo spazio sacrale vuoto, ricerca, interrogativo aperto all’infinito piuttosto che affermazione sul senso
e, ancora, inadeguatezza al qui e all’ora aprendo a questo varco, suggerendo questo passaggio verso un’ altrove come orizzonte, termine di raffronto
metafisico.
Strutture verticali in generale, bandiere bianche d’un campo di pace puntate verso l’alto, liane attraversano lo spazio in diagonale, oppure sagome d’un
mondo svuotato, planisferi, mappamondi, carte della terra viste come distese rilucenti ritagliate sulla superficie terrestre dall’esterno e a distanza.
L’uomo di Leonardo, l’uomo al centro del cosmo per eccellenza, figurato nella sintesi essenziale, nella quadratura perfetta del cerchio, è fotografato come
l’artista stesso disteso sull’installazione in legno all’ingresso della mostra; la figura guarda verso l’alto ma, come in altre sculture successive è posta
dietro una rete, dentro una scatola-gabbia o inquadratura, visto in questa riduzione depersonalizzante di sagome a duplicazione o in contorni astratti
oltre ogni singola incarnazione.
Ancora contorni esterni ritagliati nel legno di figure svuotate, astratte, spogliate d’ogni identità individuale non rappresentano l’umano ma lo
interrogano, lo indirizzano, aspirano a ritrovarlo come la presenza del divino in loro percorrendo in senso metafisico questo viaggio dal pieno della
materia- legno forma primaria, terra, paglia, polveri colorate-in sinestesia nello spazio circostante e verso l’alto, verso questa altra dimensione
evocata.
L’infinito nello spazio è verticalità, allungamento dove gli oggetti tendono verso l’alto, questo punto di fuga in altezza, invisibile a noi nel suo fulcro
cercando apertura oltre i limiti stringenti dell’oggetto, del mondo verso una possibilità d’infinito, di qualunque esso si tratti, di per sé sacrale.
L’infinito è già dentro lo spazio evocato, nell’uso di questo spazio spropositato, immenso, e nel mondo in cui le cose vi entrano a far parte, vi prendono
parte attiva, performativa, partendo dalle possibilità intrinseche alla materia, vivente, prima, esperita nelle sue più piccole particelle fino al
superamento della medesima: la ricerca del sacro, di un rapporto al divino come l’intangibile, il tutto cosmico, lo slancio all’ascesa, lo spirituale
dischiuso dentro e a partire dalla materia.
Zoas
è blocco di lettere in forma scultorea, tridimensionale dove il legno come materia prima si unisce all’archetipo lettera come scrittura che lascia traccia,
parola d’una non-origine scritta, iscritta nel linguaggio come differenza significante, qui in forma di lettera-scultura. All’ingresso dell’antro centrale
della galleria Zoas, come zoé, vita, restituisce il senso di un’unità ripresa dai quattro elementi, acqua, aria, terra e fuoco enumerati da una serie di
parole scritte a grandi caratteri in legno in quattro quadrati rispondendosi l’un l'altro.
Aria: est, stelle, autunno, triangolo, argento, trasparente vento, bianco, acre
Acqua: ovest, rettangolo, freddo, luna, inverno, nuvole, ferro, udito
Terra: sud, tuono, quadrato, primavera, carbone, opaco, scuro , dolce
Fuoco: nord, sole, parole, cerchio, estate, caldo, amaro, oro, pioggia, rosso
"Progetto per la pace"
Trecentosessantacinque bandiere bianche, una per ogni giorno dell’anno, bandiere per conquistare la pace, per asserirla, decretarla, assicurarla, puntate
su un supporto rialzato di sabbia, sventolanti al vento in tela chiara, semi-trasparente, alcune sporgendosi oltre, verso l’esterno, la maggior parte
aggettandosi verso l’alto a nucleo luminoso, griglia combinatoria simile a foresta, monumentale ricomporsi d’un inno alla libertà tacitamente affermato.
Campi di cotone, cannucce al vento, drappi bianchi svolazzanti,campi ricoperti di bianchi gabbiani, e ancora, una fitta spiaggia rilucente d’ ombrelloni, tessuti chiari semi-dispiegati in impiantazione di pace.
“Raccoglitore di miele”, “alzabandiera”, “accordo dei quattro elementi”, “la battaglia” e “Cina” riempiono come performance-scultorea lo
spazio di quest’antro smisurato in episodi separati ma connessi. Una lunga asta di legno taglia trasversalmente lo spazio come liana con una piccola figura
umana arrampicandosi su quella per raggiungere un alveo coperto da filo spinato. Dietro, una scala in legno e ferro portando verso l’alto, verso un oltre
illimitato, indefinito. Sospesa in mezzo al vuoto, indirizzandosi in una qualche direzione, forse verso un punto di fuga, un punto finale che esce dallo
spazio reale e dunque non visibile nell’installazione, la superficie bruciante del legno è mediata attraverso l’elemento freddo del metallo in una visione
forse onirica ma congelata lì in quello spazio vuoto, sospeso. Al centro sulla parete, “l’accordo dei quattro elementi”, un accordo che si vuole ritmico,
musicale passa attraverso il suono tramite un unisono rigoroso immaginato per le quattro campane in lega metallica, pesanti, soppesate a diverse altezze da
quattro corde sospese contro la parete: aria e terra al centro, acqua e fuoco in esterno. Quattro mondi con i loro pesi specifici, la loro carica
gravitazionale d’ oggetti, ferro e corda appesi o sospesi contro la parete.
Al lato opposto della sala è l’installazione “la battaglia” ispirata alla celebre tela rinascimentale di Paolo Uccello “Battaglia di S. Romano”;
qui un’armata di cavalli rifiniti, lavorati finemente in legno, simbolo di energia vitale ricomparendo ripetutamente nella tradizione pittorica occidentale
e assi tra quelli frammiste danno vita a una scultura-installazione smisurata nata come addizione, incastro, composizione e rivolgimento in situ attraverso
l’aggiunta di parti in legno. Sono grandi aste, bandiere sventolanti e colorate, musi, crini, criniere e cavalli, nel movimento evocato dalla battaglia,
nel rovesciamento d’assi o di figure, nel rifacimento per multiple prospettive d’una stesso visione proveniente dalla staticità della pittura classica.
In “Cina” (1966) è questa schiera infinita di figure sagomate in legno, identiche l’un l’altra, reduplicate all’infinito, infilzate da un’asta
comune come soldatini in schiera mossi da una volontà superiore in una marcia militarizzata, in una anonima avanzata collettiva nello spazio. Se l’immagine
anonima e a ripetizione riconduce all’annullamento del singolo nell’ottica d’un regime, qui il probabile riferimento all’esercito maoista, il gesto
scultoreo invade letteralmente lo spazio portando a uno sconfinamento del medesimo, giustamente a un superamento oltre i limiti della scultura cercando
apertura nelle possibilità intrinseche alla materia legno in uno spazio percepito come vivente, indefinito, estendibile all’infinito, creato dalla presenza
dell’oggetto materico e dal suo superamento in sinestesia con lo spazio esterno.
Il percorso parte dalla materia per arrivare all’alterità, alla sua metamorfosi o allo sguardo puntato oltre; radica il proprio infinito o la ricerca del
medesimo come superamento del qui ed ora in questa materialità, sostanza prima delle cose, posizionandosi all’interno d’esse, partendo dal colore come
stato primario della percezione e tutt’uno con l'oggetto per proiettarsi nella sua vibrazione luminosa al di là di quello.
Scanalature in zinco e terre colorate a riempire la grande installazione posta al suolo, al centro della stanza attigua in “le bandiere di tutto il mondo”.
Sono tubi in acciaio di case simili a grondaie divise a metà e riempite come solchi di polveri colorate o d’altri materiali provenienti d’ogni luogo:
polveri di bianco-cenere, oro rilucente, ramato, verde smeraldo vivo, rosso rubino, giallo ocra-intenso, blu cobalto primo, viola porpora, nero non
inquietante. Materie come sabbia argentea, piume d’uccelli, sassolini, pietre, schegge d’ ametista, verdi smeraldo in frammenti, paglia in filamenti,
schegge di vetro, rotoli di pellicola ravvolti tra loro, pezzi di corda, tela iuta.
“L’amore per la terra”
in fondo alla galleria centrale è calco, figura d’uomo nella terra incisa, intagliata dentro la terra con il suo impasto di paglia e cenere come lascito di
sé impresso nel negativo del ritaglio. Là l’involucro pieno fa da sfondo all’incavo svuotato della figura. La sua anima è forse partita altrove, svaporata,
il suo corpo forse è già tornato alla terra , e la cenere è dentro la terra, separata rispetto a quella dal contorno ma ricongiungendosi, frammischiandosi
ad essa. La figura in carne è bruciata, dissolta, resta l’impronta-cenere, la sua esterna corteccia lì lasciata bruciare al fuoco del suo eterno esistere,
vivere o sopravviversi; la cenere si immischia al suolo, ritorna alla terra e lì resta impressa come stigmate, lascito.
Profili di figure in alluminio ramato camminano dietro una rete metallica, (“dietro la rete”); in altre versioni mani si intrecciano, si
sovrappongono, di allontanano fino a diventare impronte delle medesime sollevate dietro la cornice di rete. In “Centouccelli” un uomo è prigioniero insieme
alla propria ombra, sagoma nera di sé in controluce, di profilo posto a meditare in questo faccia a faccia con l'invisibile dentro una rete che lo isola in
tre cornici-gabbie aprendosi l’una dall’altra come scatole cinesi.
In “Apologize Hiroshima” il legno è bruciato disegnandosi come quadrati di carbone sulla parete, superfici arse dalla combustione e terreni
regolari, rigorosi reticoli, campi squadrati di morte con sbavature di nero fumo e una testa reclinata di profilo nel grido, il bilanciere al centro d’una
sfera atomica esplosa.
Dunque ci sono figure anonime, ramate ripetendosi dietro le vetrine, recluse in ingabbiature di reti metalliche, in gabbie-cornici, in scatole cinesi, guardando all’esterno attraverso una rete di maglie esagonali, dietro una cornice metallica attraverso le sue fessure, i suoi rombi regolari.
Separatezza, prigionia, reclusione, passaggio interdetto, vista filtrata da rete a fessure romboidali; tela di ragno costruita intorno alla figura dal suo
sguardo occlusivo, limitante, dal reticolo imprigionante della sua esistenza, della sua mente. Contro quelli l’aperto, lo scorrimento, l’infinità dello
spazio-mondo, la rappresentazione della terra come d’una superficie piana e rilucente in contorni in rilievo di continenti riemersi. Carte della terra,
“planisfero” dal titolo di Ceroli con fogli-isole o penisole ritagliati in alluminio dorato sul legno colorato. Parti del mondo in rilievo, terre sommerse
riviste in superficie scintillante e dorata. Contro il confinamento delle figure in gabbia sono le rilucenti aperture di queste estensioni su piano di
carta orizzontale o le lamine dorate dei continenti sulla sfera terrestre.
In “Mare Nostrum” la carta geografica del bacino del mediterraneo è ridipinta come distesa blu acquarello, accartocciata in alcune parti come
stralci di manifesto scollato, pervasiva, tuttavia, in questa sua tonalità celeste d’infinito. In “sopra di noi il cielo” , grande collage blu in granuli e
frammenti di pietruzze, il solfato di rame del fondo diventa questa sabbia blu turchese costellata di polvere di vetro e lapislazzuli: cammino marittimo o
rotta celeste, granuli dispersi al vento, carta del mondo rifatta in rilievo con aggiunta di pietre e polveri , l'ossidazione del rame in colori brillanti ab infinitum.
Nell’ultima sala ancora accanto alle multiple scale in legno appoggiate alla parete emerge questa scala in cristallo verde riflesso; ombre oscure, immense
si profilano a partire dalle due minuscole figure in grigio impresse al suolo ma la scala trasparente, luminosa, profetica quasi, porta verso l’alto in
questo dialogo aperto o interrogativo posto all’alterità, all’assoluto come possibilità impensata del pensiero. (elisa castagnoli)
(altre riflessioni sull'arte di Elisa Castagnoli QUI)