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Riflettendo su “Acciaio”

Creato il 23 giugno 2010 da Viadellebelledonne

Riflettendo su “Acciaio”

 Un sapore acre nel palato: questa la sensazione che provo dopo l’ultima pagina di Acciaio di Silvia Avallone, Edizioni Rizzoli, il romanzo sostenuto da un battage pubblicitario intenso e da una fascetta di copertina che definisce l’autrice una nuova straordinaria scrittrice italiana. Che la Avallone sia una scrittrice non c’è dubbio: riesce a tenere avvinto il lettore alle sue pagine, intreccia con perizia le (dis)avventure dei  personaggi, ne penetra i turbamenti e i drammi, sfiora toni epici nel racconto della morte bianca, usa un lessico che va dal triviale al sublime (mi ha colpito nella descrizione di Francesca l’espressione lucore lattile che ricorda D’Annunzio). Quello che mi disorienta è il fondale su cui agiscono le protagoniste –due adolescenti irrequiete e spregiudicate- : una Piombino greve, dominata dalla fabbrica che la fagocita, una classe operaia inesistente per iniziativa sindacale e dignità, famiglie operaie allo sbando che vivono in quartieri degradati moralmente e materialmente. Non c’è luce, non c’è speranza in un tessuto urbano raccontato con spietatezza e di cui non si rammenta mai una certa vivacità culturale e intellettuale. Manca la suggestione di certi angoli della città vecchia o di certe strade lungo la costa, in bilico tra il promontorio e il mare;  la stessa bellissima Piazza Bovio, la terrazza sull’Arcipelago, è solo la proiezione verso un mondo altro, quello delle isole, irraggiungibili anche se a  poche miglia di distanza. E’ nell’insularità infatti che i personaggi concentrano il sogno, la fuga da una realtà meschina: l’Elba è terra di paesi-presepi, di spiagge bianche, della vita come dovrebbe essere. I giovani operai della Lucchini (Alessio, Cristiano) sniffano cocaina per andare avanti, rubano il rame, sognano la bella macchina e votano a destra perché Berlusconi non è uno sfigato; quelli maturi non potrebbero essere peggiori: Arturo rinnega la fabbrica per trafficare sporco e rischia la galera; Enrico, gelosissimo della figlia stupenda che sta crescendo, la spia col binocolo dal balcone di casa mentre è al mare con i coetanei e riempie di botte lei e la madre quando sgarrano. Le mogli, pur con qualche velleità di ribellione, restano alla fine passive e succubi: Sandra, che pure lavora ed è impegnata politicamente, si lascia abbagliare dai soldi e dal diamante che il marito-filibustiere le porta in casa; Rosa che ha poco più di trent’anni e ne dimostra il doppio, dopo le violenze di tutta la sua disgraziata vita matrimoniale, non riesce, neppure dopo l’ennesimo gravissimo episodio a trovare la forza di denunciare il marito e finisce inebetita a imbottirsi di tranquillanti e a diventare l’infermiera di un Enrico finalmente innocuo a causa di un incidente stradale. Le case operaie, le scale, i cortili sono squallidi e maleodoranti: vi brulica un’umanità disperata, senza memoria né futuro, plagiata dalla televisione e dalle mode effimere. La scuola per Anna sarà forse un’occasione di riscatto ma Francesca dovrà invece rinunciarci a causa del padre, che la esige a casa, a aiutare la madre, frustrata e depressa: da qui la sua ribellione scandalosa e masochista. Fino al ritrovamento dell’amica che credeva persa per sempre e a quella fuga nell’isola-sogno, anche soltanto per un tuffo nell’acqua trasparente delle Ghiaie.

Non conosco bene la Piombino d’oggi, ma vi ho abitato per un decennio fino a metà degli anni Settanta: il Liceo Classico che frequentavo era a Marina e tutti i giorni, andandoci, potevo salutare la mia Elba. Ho conosciuto una Piombino attiva, dignitosa, fiera del suo stabilimento, popolata da una classe operaia preparata e sensibile, che conosceva il valore della cultura e mandava con grandi sacrifici, i propri figli, se erano bravi, al Liceo Classico, la scuola dei ricchi, della futura classe dirigente. Ho così avuto compagni di scuola che erano di estrazione sociale borghese e che avevano padri medici o avvocati o impiegati e vivevano nelle belle palazzine stile liberty di Salivoli o in quelle, nascoste tra gli olivi, di Montemazzano; ma ho avuto anche compagni, i più –Alessandra Patrizia Stefania Rita Manrico Angela Carla…-  che avevano i babbi operai, come il mio, che era un operaio-di mare, e abitavano in case accoglienti, pulitissime e con i fiori sul balcone. E i loro figli erano quelli, spesso, che andavano meglio a scuola, per loro merito ma anche perché la cultura era un valore imprescindibile per le famiglie. L’aria che si respirava era sì viziata dal fumo ma sapeva anche di progetti, di speranze, di voglia di lottare per una società meno ingiusta: gli universitari pisani venivano nelle scuole superiori per raccontarci che succedeva; facevamo assemblee e cortei insieme agli operai dell’Italsider, difendevamo gli spazi di democrazia faticosamente conquistati a scuola. Piombino era viva: cinema, teatro, iniziative culturali di vario genere, Biblioteca Comunale funzionante, eventi sportivi, concerti.

Lo so, sono passati decenni, ma è possibile che di quel fervore, di quella dignità non sia rimasto nulla nella sua gente né sia stato trasmesso, almeno minimamente, ai figli? Non voglio crederci, anche se la Avallone mi racconta il contrario.

Maria Gisella Catuogno



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