Questa può essere una spiegazione della proposta di Bonanni, presentata già nelle fasi iniziali del negoziato e subito fatta propria dal Governo. Certo è che sulla disciplina dei licenziamenti si è preferito un progetto più ambizioso quantitativamente, ma meno incisivo e organico sul piano qualitativo. Questo, tra l’altro, ha determinato una alterazione dell’equilibrio iniziale tra riforma della disciplina dei licenziamenti e norme di contrasto alla precarietà del lavoro. Che cosa vuol dire? Voglio dire che l’idea di una forte restrizione della possibilità di ingaggio dei lavoratori sostanzialmente dipendenti in forme contrattuali flessibili, quali la collaborazione autonoma e l’associazione in partecipazione, era inizialmente coniugata con quella di una forte flessibilizzazione del contratto regolare a tempo indeterminato, almeno nel suo primo triennio. Questo avrebbe reso molto più accettabile per le imprese l’assorbimento nell’area di applicazione della legislazione protettiva delle attuali collaborazioni autonome che mascherano situazioni di sostanziale dipendenza. Poi, sotto la pressione della sinistra politica e sindacale, la portata della riforma dei licenziamenti è stata progressivamente ridimensionata; era facile dunque attendersi che gli imprenditori avrebbero chiesto un simmetrico ridimensionamento delle norme di contrasto alle forme di lavoro precario. Ed è proprio quello che sta avvenendo. Inoltre, un sostegno più robusto ai lavoratori disoccupati, per quel che riguarda non solo il sostegno del reddito ma anche i servizi di assistenza intensiva nella ricerca della nuova occupazione, avrebbe reso più accettabile a sinistra una riforma della disciplina dei licenziamenti anche più incisiva di questa. Dunque, un giudizio negativo sul disegno di legge sul quale il Senato sta lavorando? No. Nonostante questa “riduzione bilanciata” di incisività della riforma sui due versanti – quello della disciplina dei licenziamenti e quello del contrasto al precariato – e il suo contenuto insufficiente per quel che riguarda il sostegno ai disoccupati e i servizi nel mercato, il disegno di legge a cui stiamo lavorando in Senato segna una tappa molto importante e positiva nell’evoluzione del nostro diritto del lavoro. Innanzitutto perché esso affronta concretamente, per la prima volta nel sessantennio repubblicano, la questione del dualismo del nostro tessuto produttivo, cioè dell’apartheid fra protetti e non protetti, secondo quanto siamo stati sollecitati a fare in modo particolarmente pressante dalla Commissione Europea negli ultimi tempi. Poi perché con questa riforma si supera una anomalia molto rilevante della nostra disciplina dei licenziamenti rispetto al resto degli ordinamenti europei; e noi abbiamo una necessità urgente di armonizzare la nostra legislazione del lavoro, soprattutto per questo aspetto, agli standard dei Paesi più avanzati, anche in funzione dell’apertura del nostro sistema agli investimenti esteri. Infine perché finalmente si compie un primo passo importantissimo sulla via della riforma e universalizzazione degli ammortizzatori sociali, dopo quindici anni nei quali se ne è parlato molto senza combinare nulla. Le novità in materia di ammortizzatori sociali, però, non sono state molto apprezzate, né dai sindacati né dagli imprenditori. Per la prima volta abbiamo un’unica assicurazione contro la disoccupazione, l’ASPI, uguale per tutti i lavoratori dipendenti. E per la prima volta la Cassa integrazione guadagni viene ricondotta in modo molto netto e incisivo alla sua funzione originaria: quella di tenere i lavoratori legati all’impresa nelle situazioni di difficoltà temporanea, per evitare la dispersione di professionalità quando vi è la ragionevole prospettiva della ripresa del lavoro nella stessa impresa. C’è chi dice che la riforma dell’articolo 18 è stata sostanzialmente svuotata, che i giudici del lavoro potranno andare avanti a reintegrare i lavoratori come e quando vorranno. Non è così. La nuova norma contiene numerose novità molto importanti, che determineranno fin da subito un cambiamento sensibile, eliminando molti paradossi e assurdità generate dalla vecchia formulazione dell’articolo 18. Innanzitutto, vengono stabiliti dei limiti precisi e ben graduati dell’indennizzo, sia nel caso in cui esso si accompagna alla reintegrazione sia nel caso in cui esso costituisce la sola sanzione per il difetto di giustificazione del licenziamento: non potrà più accadere che una sentenza pronunciata molti anni dopo il licenziamento produca risarcimenti milionari. Poi si stabilisce la regola per cui la reintegrazione costituisce la sanzione tendenzialmente riservata al caso del licenziamento dettato da un motivo illecito: essa deve dunque scattare quando la discriminazione o rappresaglia viene accertata dal giudice, oppure nei casi di radicale insussistenza del motivo addotto dal datore di lavoro, che consente di presumere un motivo illecito o comunque del tutto arbitrario. In tutti gli altri casi il giudice sarà tenuto a disporre il solo indennizzo, tra il minimo delle 12 e il massimo delle 24 mensilità: un massimo che supera di un terzo quello tedesco, ovvero il più alto d’Europa dopo il nostro, ma che è pur sempre un limite massimo, in una materia finora caratterizzata dall’assenza di qualsiasi limite. Ma i critici della riforma dicono che i giudici del lavoro italiani andranno avanti come hanno sempre fatto a condannare le imprese alla reintegrazione, vedendo discriminazioni e rappresaglie dappertutto. Non andrà così. Oggi nella grande maggioranza dei casi di annullamento di licenziamento disciplinare, il giudice accerta che la mancanza imputata al lavoratore è stata commessa, ma ritiene che essa non sia di entità tale da giustificare il recesso del datore; in questi casi d’ora in poi dovrà essere disposto il solo indennizzo, che costituisce la sanzione più equilibrata se si considera che il lavoratore ha concorso con una propria colpa a determinare lo scioglimento del rapporto. Quanto ai licenziamenti per motivo economico od organizzativo, nella grande maggioranza dei casi di annullamento il giudice non accerta l’insussistenza totale del motivo addotto dall’imprenditore, ma si limita a ritenerlo insufficiente per determinare il recesso; anche in tutti questi casi non potrà essere disposta la reintegrazione, perché la nuova norma la escluderà in modo molto esplicito. L’esperienza pratica, poi, insegna che se l’esito più probabile del giudizio consiste nell’indennizzo, le parti si accordano su di esso già in sede di conciliazione, o nel corso della prima udienza. E sarà proprio questo a segnare il passaggio da un regime di job property a un regime di liability dell’impresa nei confronti del proprio dipendente. Che cosa vuol dire? Oggi, dove si applica l’articolo 18, di fatto il licenziamento individuale è possibile soltanto in presenza di una mancanza gravissima del lavoratore. Questo determina una situazione nella quale quest’ultimo può sentirsi come titolare di un diritto di proprietà sul proprio posto di lavoro: anche in presenza di una perdita rilevante attesa dall’imprenditore per effetto della prosecuzione del rapporto, se l’impresa non è già in stato fallimentare e non ci sono neppure gli estremi per un licenziamento collettivo il lavoratore sa di non poter perdere il posto. Nel nuovo sistema, invece, la netta prevalenza della sanzione economica farà sì che diventi proprio questa, il cosiddetto severancecost, il vero filtro delle scelte imprenditoriali. In altre parole, è come se il legislatore fissasse una soglia oltre la quale la perdita attesa dalla prosecuzione del rapporto di fatto giustifica il licenziamento: se la perdita attesa, attualizzata a oggi, supera le 24 mensilità di retribuzione, oppure un limite inferiore nei casi di bassa anzianità di servizio del lavoratore, il licenziamento è di fatto possibile. Ed è giusto e opportuno che sia così. Anche per gli stessi lavoratori. Fermo restando ovviamente il controllo giudiziale rigoroso contro discriminazioni e rappresaglie illecite. Perché i lavoratori dovrebbero guadagnarci? Perché una protezione della stabilità dei posti di lavoro troppo rigida genera una cattiva allocazione delle risorse umane, quindi anche una minore produttività del lavoro, con conseguenti livelli più bassi di trattamento. I fautori della vecchia formulazione dell’articolo 18 obiettano che, se il licenziamento è illegittimo, la sanzione della reintegrazione è quella che corrisponde meglio al concetto di giustizia. Invece è proprio la vecchia formulazione dell’articolo 18 che ha prodotto risultati paradossali, soprattutto sotto il profilo dell’equità. Si pensi ai casi molto frequenti in cui una mancanza è stata commessa dal lavoratore, e anche di una certa gravità, ma il giudice la ritiene insufficiente a giustificare il licenziamento: per esempio assenza ingiustificata, danno prodotto per negligenza, piccolo furto; il fatto che il lavoratore torni trionfante nel suo posto di lavoro, ricevendo per di più un indennizzo da vincita al Totocalcio, non può essere considerato equo né nei confronti dell’imprenditore, né nei confronti degli altri dipendenti, che infatti sono sovente offesi da questo esito. Quanto al licenziamento per motivo economico od organizzativo ritenuto insufficiente dal giudice, la vecchia disciplina ci ha abituato a parlarne in termini di “licenziamento illegittimo”; ma a ben vedere qui il confine tra motivo giustificato e motivo insufficiente è talmente labile, e dunque l’esito del giudizio talmente aleatorio, che il filtro del severancecost è molto più equo, oltre che più efficiente, rispetto all’attuale regime di “lotteria” della reintegrazione. Un’incertezza circa la decisione del giudice ci sarà comunque, anche se sarà molto più probabile la decisione nel senso dell’indennizzo rispetto a quella di reintegrazione. Sì, ma come dicevo prima proprio il fatto che l’esito più probabile sia l’indennizzo farà sì che – dove non ci sia alcuna possibilità di ipotizzare la discriminazione o la rappresaglia – una porzione molto più ampia di controversie si risolverà in sede conciliativa con il pagamento di un indennizzo parametrato sui limiti minimo e massimo stabiliti dalla legge. Come accade in tutti gli altri Paesi d’Europa. E questo sarà meglio sia per i lavoratori sia per gli imprenditori. E anche per l’amministrazione della giustizia, che ne sarà decongestionata. Fin qui abbiamo visto quelli che lei indica come meriti di questa riforma. Quali sono, invece, a suo modo di vedere, i difetti più gravi? Vedo in primo luogo un difetto nella forma giuridica. Questo disegno di legge è ancora un testo scritto alla vecchia maniera: ipertrofico, complicatissimo, non leggibile se non dagli addetti ai lavori. Settantadue articoli: più di quelli dell’intero codice del lavoro semplificato proposto con il mio disegno di legge n. 1873, che contiene tutta intera la disciplina dei rapporti di lavoro e dei rapporti sindacali. Anche nel contenuto di alcune norme vedo una vecchia cultura giuslavoristica, tendente alla iperlegificazione del rapporto: si pretende di regolare tutto, fin nei minimi dettagli, finendo coll’aumentare i costi di transazione, la sabbia nell’ingranaggio. Per esempio: la pratica odiosa del far firmare al o alla dipendente le dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione potrebbe essere sradicata con una norma semplicissima che attribuisca in tutti i casi alla persona che si dimette la possibilità di revocare l’atto entro due o tre giorni; si è preferito invece tornare a una disposizione che presenta troppe analogie, per aumento del peso burocratico, rispetto a quella che produsse una sorta di rigetto da parte del tessuto produttivo quattro anni or sono. Ma la mia preoccupazione maggiore, riguardo a questo disegno di legge, è un’altra. Quale? Questa riforma in partenza recepiva sostanzialmente la struttura portante del mio progetto: rendere molto più flessibile e appetibile per le imprese il rapporto di lavoro subordinato regolare a tempo indeterminato, in modo da poter far confluire in questo tipo contrattuale gran parte dei rapporti oggi sparsi nei vari tipi di lavoro precario o non protetto senza determinare perdite di occupazione. Ma nel mio progetto si prevede l’unificazione della contribuzione pensionistica al 29 o 30 per cento della retribuzione lorda, cioè in un punto intermedio fra l’attuale 27,8 dei collaboratori autonomi e l’attuale 32 o 33 per cento dei subordinati regolari; inoltre si prevede una fase iniziale del rapporto a tempo indeterminato – il primo triennio – nella quale il costo del licenziamento è davvero molto basso: una mensilità per anno di anzianità di servizio comprensiva dell’indennità di preavviso, con esenzione dal controllo giudiziale sul motivo economico-organizzativo. In questo modo sì che si può chiedere alle imprese di rinunciare dall’oggi al domani ai rapporti di lavoro precari, senza il timore di perdite di occupazione. Nel disegno di legge del Governo, invece, la progressiva parificazione della contribuzione previdenziale avviene al rialzo, sull’aliquota del 33 per cento; e il costo del licenziamento è correlato in misura molto minore all’anzianità di servizio: superato il periodo di prova, l’indennizzo per il licenziamento ritenuto dal giudice ingiustificato viene subito determinato con un minimo di 12 mensilità. Dunque lei vede il rischio che in questo modo si perdano per strada dei posti di lavoro? Mi sembra difficile escludere questo rischio. Perché non lo si corresse, occorrerebbe che la domanda di lavoro fosse rigidissima, quindi insensibile all’aumento dei costi; ma la domanda di lavoro non lo è affatto in generale, ed è invece particolarmente elastica nella fascia professionale più bassa, dove è più diffuso il fenomeno dei rapporti di lavoro precari. Sta di fatto, comunque, che l’applicazione delle disposizioni volte a contrastare l’abuso delle collaborazioni autonome viene rinviata di un anno; e il rinvio rischia di essere prorogato alle calende greche. Questo allontana il superamento del regime attuale di apartheid. Questa riforma secondo lei può ancora avere un impatto positivo sull’attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri?
Certo, avrebbe potuto avere un impatto positivo molto maggiore il progetto originario della sperimentazione di un nuovo assetto molto più semplice del rapporto di lavoro, riservata ai nuovi insediamenti e alle nuove assunzioni nelle imprese interessate. Anche questo disegno di legge, poi, pur con tutti i suoi difetti, avrebbe potuto giovare molto di più all’immagine del nostro Paese all’estero se il dibattito tra le parti sociali che ne ha accompagnato la gestazione fosse stato meno nervoso e concitato. Però, come dicevo prima, sono convinto che i pregi di questo disegno di legge nonostante tutto superino largamente i suoi difetti; e – se esso verrà varato con i miglioramenti a cui stiamo lavorando proprio in questi giorni in Senato – non tarderà a produrre un effetto positivo sulla nostra immagine: ne risulterà comunque un ordinamento del lavoro un poco meno caratterizzato dal dualismo fra protetti e non protetti e più allineato al resto d’Europa. In ogni caso, la battaglia per i due grandi obiettivi della semplificazione e della flexsecurity continua.
Vuol dire che si può pensare di arrivare alla Danimarca passando per la Germania?
Non mi sembra affatto un’idea peregrina. Chissà, forse è persino possibile che sia più facile arrivare al modello scandinavo attraverso questa prima tappa meno ambiziosa. Intanto il tabù è stato rotto; e questo conta moltissimo.