Non lasciano mai insoddisfatte le cronache degli incontri dell’ormai perclaro ABC. Proprio quando il governissimo inizia a traballare leggermente e si acuisce flebilmente il dissapore tra i partiti di maggioranza, ecco un bel vertice a tre e tornano i sorrisi.
In questo caso, poi, a 36 denti. Sì perché il magnifico trio se n’è venuto fuori con una proposta di riforma elettorale che chiamare retrograda è farle un complimento. Basta una paura fottuta di perdere le elezioni e un pizzico di accordo bipartisan e il revival della Prima Repubblica è servito.
Già definita porcata e vaccata e potete anche immaginare da chi, la nuova legge elettorale prevede qualche caramella e una cospicua dose di scempiaggini. Si torna alla scelta del candidato, deo gratias, e ai congressi uninominali, si sforbicia un pelino la massa di onorevoli che scenderanno da 950 a 750 (500 a Montecitorio e 250 a Palazzo Madama) ma che rimangono comunque troppi. Lo sbarramento è al 5%, discretamente alto ma che comunque non eviterà, come è successo in questa legislatura, la formazione in Aula di tanti mini gruppi. Il candidato premier dovrà essere esplicitamente indicato, ma questa non è propriamente una novità.
Dopo anni di logoramento a proposito del raggiungimento del bipolarismo, con un volo pindarico si torna al proporzionale, con premio di maggioranza e senza obbligo di coalizione. Per farla facile: ogni partito correrà da solo, facendo una campagna elettorale improntata sulle sulla propria immagine e poi alle urne si fanno i conti. Il premio di maggioranza non garantirà a un solo partito di spadroneggiare da solo (impossibile vedendo l’apprezzamento di cui godono attualmente) e quindi l’alleanza di governo si formerà in un secondo momento, a tavolino, con il pallottoliere: è la definizione precisa di gioco di Palazzo.
La sostanza di questa riforma è il cerchiobottismo: i partiti sanno di avere una popolarità infima, sanno che l’elettorato potrebbe sparpagliarsi e sanno che questa fase tecnica ha stranito molto l’opinione pubblica. Così si lasciano tutte le porte aperte: l’asse PDL-Lega può ricucirsi, come no; il PD può stare con IDV e SEL, oppure con l’UDC; o ancora si può continuare con l’ABC.
Tutto bene, per loro. Il problema è che in un Paese serio le unioni non si fanno contando le poltrone e tirando le somme, ma su programmi e idee. Già ora sappiamo che le promesse elettorali sono menzognere, ma così arriva l’ufficialità: come sarà possibile mantenerle se poi ci si ritrova al governo conservatori e riformisti, laici e cattolici, moderati e progressisti?
I governi saranno un continuo do ut des, altro che riforme per il bene del Paese. Ogni partito scenderà a compromessi pur di far passare il proprio cavallo di battaglia, gli accordi sotto banco e i pizzini saranno all’ordine del giorno.
Per fortuna, questa per ora è un’idea, una bozza. L’iter delle riforme costituzionali è lungo e tortuoso e c’è ancora la speranza che il salto all’indietro venga evitato.
Fonte: Ansa