L'altra ragione per cui l'apartheid limita la produttività è che crea un enorme disincentivo alle imprese a premiare il merito di un lavoratore bravo e a penalizzare il demerito di uno meno bravo. Non un lavoratore assenteista o il cui posto di lavoro non esiste più. Semplicemente un lavoratore che lavora male e che nella società di servizi può fare gravi danni: trattando male un cliente a un call center o peccando di leggerezza in un pronto soccorso. I dipendenti protetti dall'articolo 18 non li puoi licenziare, quelli bravi non protetti (e tra i 12 milioni ce ne sono tanti) non li puoi premiare. Un lavoratore a partita Iva, che lavora solo per una azienda ed è più bravo di uno che è assunto a tempo indeterminato protetto dall'articolo 18, è fortemente penalizzato nella sua carriera.
La riforma Fornero ha tentato di ridurre l'iniquità dell'apartheid, ma è mancata sul fronte della produttività. Tenta di offrire un sussidio di disoccupazione ai precari, ma non si sa a quanti. Tenta anche di scoraggiare il precariato creando forti disincentivi (fiscali, lotta alle partite Iva monocliente, ecc.) al suo utilizzo, ma gli incentivi alle assunzioni con contratti regolari (come la riduzione del cuneo fiscale) sono pochi. Allo stesso tempo tenta di affrontare il tabù dell'art. 18 rendendo il reintegro del singolo lavoratore licenziato per «ragioni economiche» meno facile, ma a questo punto del dibattito politico, questa possibilità è tutt'altro che chiara. Sono quindi più che giustificate le previsioni di un notevole aumento del sommerso e una rinascita del «piccolo è bello perché può fare il nero».
Una riforma radicale per il lavoro deve avere l'obiettivo di ridurre l'apartheid aumentando simultaneamente la produttività e riducendo l'iniquità proteggendo tutti i lavoratori e non solo alcuni posti di lavoro. Ma è necessario riformare una volta per tutte il welfare familiare all'italiana che garantisce a tutti i costi il lavoro del capofamiglia, che a sua volta protegge figli precari e mogli che si occupano di case e anziani. La cassa integrazione è l'ammortizzatore sociale alla base di questo welfare ed è iniquo perché non protegge i lavoratori delle piccole imprese e inefficiente perché non incentiva a cercarsi un altro lavoro quando il posto di lavoro non c'è più (attende che «il ciclo riparta»). Il nostro welfare familiare consente anche di andare in pensione prima che ovunque in Europa, grazie alle pensioni di anzianità, solo parzialmente attaccate dalla prima riforma Fornero. Continueranno così per anni a sottrarre risorse per ammortizzatori sociali moderni del tipo «scandinavo»: per mandare in pensione a 58 anni un insegnante, non si può dare un sussidio decente ad un giovane precario che viene licenziato. E il loro costo spropositato continuerà a rendere il cuneo fiscale in Italia troppo alto per molto tempo e a disincentivare le assunzioni. Infine, riformare il welfare per proteggere il lavoratore e non il lavoro vuole anche dire modificare tutte le norme che regolano il lavoro, (compreso lo Statuto dei lavoratori) per poter licenziare per demerito e promuovere per merito: al contrario che nei Paesi più liberisti e/o con importanti ammortizzatori sociali, l'onere della prova della «giusta causa» di licenziamento individuale è a carico della impresa e non del lavoratore e un processo per «giusta causa» sembra un processo penale, in cui il lavoratore fa la parte dell'imputato e l'impresa quella dell'accusa. Infine è fondamentale una grande riforma per accorciare i tempi biblici della nostra giustizia civile senza la quale il welfare non è riformabile (come peraltro nessuna delle altre riforme per la crescita).
La speranza è che il dibattito che riprende in questi giorni si focalizzi su una «visione strategica» del nostro welfare per restituire produttività alle nostre imprese, invece che sul reintegro di lavoratori licenziati in tempi di crisi.