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Riletti: Seguiamo e accarezziamo di Marco Molinari

Da Narcyso

Marco Molinari, Seguiamo e accarezziamo, Il ponte del sale 2007

Riletti: Seguiamo e accarezziamo di Marco Molinari
Se il mondo fosse un posto giusto, anche il mondo della letteratura, fra tutti gli altri mondi, dovrebbe riflettere un’idea di giustizia ancestrale, epica, quella che vive nella caverna e che probabilmente appartiene a quella schiera vasta di idee che non si sono mai incarnate, o in parte, a strappi, protese tra un prima e un dopo, nella speranza, sempre rimandata, di una rivelazione.
Così anche la letteratura è luogo di inganni, un luogo in cui un libro può essere condannato all’oblio o alla dispersione, all’indifferenza o alla consunzione, esattamente come un oggetto, un progetto, una persona. Si tratta, d’altronde, dell’immagine specchiata della nostra stessa dimenticanza.
La cosa più grave di cui il meccanismo triturante della letteratura: – amalgama editore/lettore/mercato/cultura etc… – si può rendere responsabile, è la mancata restituzione a se stessi e agli altri di una parola, un verso, una frase, un testo che ci abbia colpiti, che abbiamo sentito nostro, che ci abbia parlato rinunciando al proprio narcisismo, alle proprie interferenze di stile. Così, a volte, sento l’urgenza di tornare ai libri che mi hanno detto qualcosa e questo può avvenire solo con le opere più mature, quelle che hanno risolto in sé i debiti con i maestri, persino con la propria autobiografia, restituendola a una più vasta biografia, al volto comune della razza. Quindi libri capaci anche di mostrare una loro fragilità, le proprie fonti scoperte proprio perché, come dice Marco Molinari in un passaggio “amo solo le opere non riuscite…”, p. 38.
Se ci fosse giustizia, dicevo, dovremmo leggere come dei marziani che non sanno niente di questo mondo, e sicuramente leggeremo meglio dopo la fine di questo mondo, quando l’urgenza ci porterà a delle nozioni semplici: la sopravvivenza, il pane, la terra, l’acqua, la casa, la morte, l’amore. Forse potremmo scoprire in questi versi di Marco, le cose che abbiamo perduto e perché le abbiamo perdute. Se rileggiamo questi testi è perchè, semplicemente, questi testi non si sono lasciati dimenticare.

Sebastiano Aglieco

***

LETTERA AI MIEI CONTEMPORANEI

Ogniqualvolta il delirio si frappone
e il cielo chiazzato diventa uniforme
e le forze calano e gli occhi affondano
in due distinte direzioni: bene e morte;
allora quel centimetro, quel pollice
prende su di sé il marcio, la verosimiglianza.
Fino a quando avverrà il miracolo?
Non inventi niente tu che sei famoso.
Famoso in vita sei fanfaluca, pallina
di sterco. Non inventi nulla,
che gli anonimi, le tombe
in aria, non sappiano.
Di questo mi sazio, respiro:
dai miei contemporanei non imparerò,
da chi potrei apprendere
mi è preclusa la conoscenza, il matrimonio.
Questo mi sorregge e la linfa
acquosa cicatrizza ogni strappo,
qui, ora, finchè vivo.

***

LA VISTA DELL’INFERNO

I

Quello che ancora non ho perso,
lo perderò a poco a poco,
giorno dopo giorno,
minuto dopo minuto, senza sosta.
Il grano maturo grida al cielo,
e sentirlo è uno strazio:
dalla finestra arrivano brandelli
della bestemmia; a quel giorno
dedicata, verrà anche se non l’aspetti,
il raccolto. Ma quello è destino
e ha giustizia, invece il nostro perdere
per pura sottrazione è solo inferno,
senza riflessi di luce
o onde da offrire ai venti,
solo un risucchio velenoso e anonimo.
Per certi uomini è questo,
l’errore non è perdonato
e l’inferno inizia subito
come un ladro notturno, invisibile,
a portarci via la vita,
a pezzetti sempre più piccoli,
finchè rimane solo l’anima
e infine, via anche questa.

Impallidisce il mare mai nato
dentro ha il sasso inghiottito:
madre, tienimi la mano.

II

Il girone dei rabbiosi è qui
per noi che dobbiamo accettare
questa oscenità insuperabile
tutti i giorni in televisione
e sapere che qualcuno a cui
vuoi bene deve per forza guardare
vorresti distruggerli, ucciderli
sterminarli come le formiche
con la benzina, accendere
piano il cerino, ridendo
ridendo a tutto quell’odore
sacro di carne bruciata
cosce, polpacci truccati,
orge di silicone, dentiere
lingue biliari, vomito.
Non si può odiare
di più questo nazismo
d’oggi, il girone dei rabbiosi
ha qualche peccatore
già cieco e folle.

III

Muoiono piccoli e senza dita
l’esperienza di accelerare sul ghiaccio
muoiono con la pancia gonfia
senza golf di lana
e senza potersi chiedere perchè
una domanda che cade come mercurio
sull’asta dei quaranta gradi
muoiono perchè sono nati
spesso la filosofia cede
soprattutto in Africa al sole possente
o nei bordelli dell’Asia, i gracili
cherubini di Tailandia e Santo Domingo
a cui faresti un profondo esame
se per caso hanno studiato
le tabelline, la storia, le nozioni
di geometria, letto una poesia.
Quello che potrebbe aiutarli
a non morire piccoli.

ACCENDI UN FUOCO

Alzati, cerca una candela,
frapponi un canto, una preghiera,
scalda per quando dovrai tremare,
ascolta ancora una volta,
non parlare, inutile ormai,
capire adesso per quando sarà possibile,
aggiungere ora prima della sterilità,
il fruscio che senti non spaventa,
può essere l’assassino, ma non fa paura,
quindi accendi un fuoco,
prendi la legna, ben secca,
metti sotto la carta, distribuita in armonia,
con i fiammiferi che hai, accendilo ora.

LA PROCESSIONE DEI FIORI

Pensate bambini, poche saranno
le occasioni di camminare
su una strada di fiori.

Vedrete, il livore degli anni
vi insegnerà ad andare carponi
nel fango e nel viscido,
dicono che ogni gioco ha sempre un prezzo
ma nessuno riuscirà a comprare
quest’inutile immensa felicità.

I fiori stesi sull’asfalto,
il carminio lambisce le ciglia.

Aprite la Chiesa ai giochi,
nel luogo dove il cielo ha perso:
grazie per le veglie, maggio;
dopo tanto ghiaccio nel cervello
e pietre nello stomaco,
oggi la processione dei fiori,
un altro giorno coi re.


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