È stata una delle cose più stressanti se non altro degli ultimi mesi della mia vita, non tanto per la fatica di prepararsi per fare un buon lavoro quanto per il timore di ricevere attacchi che non avevo tempo e modo di allenarmi a sostenere, e per gli interrogativi che mi ero posta sul mio ruolo di moderatrice. Stamattina è arrivata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, e ho deciso di non moderare io l’evento di questo pomeriggio. Ho lasciato ai futuri moderatori le domande che avrei fatto e degli appunti asciutti, per non metterli troppo in difficoltà con la mia rinuncia. Loro sono neutrali e inattaccabili, non avendo esperienza dell’argomento e quindi, dato lo stato attuale delle cose, è meglio che prendano il mio posto. Ora scrivo, se a qualcuno interessa, le mie motivazioni per la scelta. Mi dispiace buttarla sul personale o dare impressioni di megalomania. Ci tengo a dire soprattutto una cosa: la storia è una disciplina che richiede un’enorme onestà intellettuale. Non si può fare storia militante: o si fa storia o la si usa a fini politici. Sono due cose incompatibili. La storia ci aiuta a capire il presente e anche ad attribuire responsabilità, ma solo se prima la si è conosciuta nel modo più libero possibile da pregiudizi e tifoserie. Nessuno, forse, può essere obiettivo in modo totale, ma cercare di esserlo è il compito di ogni storico. E più che obiettivo, io direi: onesto. Come diceva Mauro in un recente commento, questo significa essere aperti a quello che si trova quando si fa ricerca anche se sorprende o delude. A capire di essere obbligati a presentarlo anche se non si vorrebbe. Io non ho la pretesa di essere un’esperta di ‘foibe’ solo perché anni fa ho fatto un lavoro, per quanto scrupoloso e documentato; sono invece sicura di averlo svolto con la massima onestà intellettuale. Rileggendolo di recente ho trovato un errore in un nome (che mi è stato segnalato e che ho corretto almeno sul blog) e forse un paio di generalizzazioni eccessive, ma non errori di impostazione, nel senso che rivendico quello che ho scritto e il modo in cui ho trattato il materiale. Si possono invece conoscere bene i fatti, le fonti e i particolari, ma sbagliare nell’interpretarli o nel contestualizzarli. Mi mantengo generica perché non voglio fare nomi e cognomi. Purtroppo, la tensione non si è placata sugli argomenti di cui si parlerà oggi, anche per colpa del persistere di opposte tifoserie, al punto da farmi sospettare di non essere l’unica a voler evitare situazioni eccessivamente conflittuali che non aiutano la ricerca della verità, e quindi a sottrarsi ad esse (cosa che avrei dovuto fare prima e non all’ultimo).
Farò ora una confessione che non vorrei fare, perché intima anche se riguardante la sfera intellettuale. Prendetela come la confessione di un ex dipendente da qualcosa, cioè qualcuno che è caduto in errore, almeno in parte, e racconta la sua esperienza quasi come monito. Vi dirò quindi che mi è capitato, in passato, di appassionarmi alla storia balcanica iniziando però il mio interessamento sotto l’influenza di una delle parti in causa. Sono seguiti anni di ricerche ossessive, in cui credo di aver contratto la malattia del simpatizzante, che salta su ogni volta che si attaccano i suoi beniamini cercando argomentazioni e fatti storici che lo scagionino se non altro in parte. Al tempo stesso volevo sinceramente capire cos’era vero e cosa no, e quindi ogni dimostrazione innegabile che la mia versione andava rivista era come una pugnalata perché non ero abbastanza disonesta da non crederci, ma nemmeno abbastanza distaccata da accettarla serenamente. Vivevo un conflitto interiore che si manifestava in monologhi rivali che si recitavano da soli nella mia testa. In questa mia strana vicenda intellettuale sono state coinvolte anche esperienze di vita e legami con persone, e il continuo rimbalzare tra l’evidenza e l’interpretazione che ne davano dette persone poteva essere alle volte addirittura straziante. Al tempo stesso, mi sono calata così a fondo nelle cose da avvicinarmi a quella che ritengo essere la comprensione della mente di un genocida o di un criminale di guerra. Per genocida o criminale intendo non solo chi pensa l’atto, ma anche chi lo commette – il soldato o il civile che uccide, la brava persona del giorno prima che si trasforma in assassino. A questo punto vengono i sensi di colpa per i soli pensieri e le vertigini per la vicinanza ad atti così atroci, anche se capire non vuol dire difendere e penso che ogni essere umano abbia il dovere di provare a capire, anche se poi si allontana disgustato. E la comprensione del distante o dell’apparentemente incomprensibile non è forse uno dei motivi alla base dell’esistenza non solo della storia, ma anche della letteratura? Verso la fine della mia fase di esplorazione sono andata anche a vivere nei Balcani per un breve periodo, sempre cercando risposte e al tempo stesso mettendo alla prova quelle che già avevo. Probabilmente nel mio confronto con persone del luogo ho fatto affermazioni che ora non farei, figlie ancora di certi pregiudizi. Credo di aver imparato la lezione, di aver acquisito il distacco, di essere poi stata, per il breve tempo in cui lo sono stata, una buona ‘storica’. Misurandomi con vicende diverse credo di essere arrivata al punto in cui il mio essere di sinistra non mi accecava, e il mio essere italiana influenzava solamente la lingua delle fonti che ero in grado di consultare. Questo è il giudizio che do io della mia buona fede; ognuno dovrebbe rispondere a se stesso riguardo alla propria. Io, non potendo essere certa della buona fede altrui e al tempo stesso essendo stata chiamata come figura neutrale ma non venendo percepita come tale ho deciso, appunto, di lasciar stare il ruolo di moderatrice che avevo accettato. Qui sotto, come anticipato, le mie motivazioni ufficiali.
Mi scuso con gli organizzatori, con i relatori e con il pubblico, ma ho deciso di non moderare l’incontro di oggi perché ho ritenuto non vi fossero le condizioni.
Nonostante io abbia una conoscenza degli eventi dovuta a mie ricerche svolte anni fa, sulla base delle quali ho formato delle interpretazioni e chiavi di lettura, il mio ruolo oggi sarebbe stato quello di moderatrice. Ho cercato di concordare con i relatori delle linee di intervento che si completassero a vicenda e fossero in linea con il lavoro da loro svolto come ricercatori.
Purtroppo è successo che mi sono state contestate le scelte che avevo fatto nell’impostazione del dibattito, nonostante le mie assicurazioni sul fatto che chiunque avrebbe avuto comunque modo di esprimere il proprio parere, e mi sono sentita attaccata nel mio lavoro di ricerca, che non era oggetto del dibattito di oggi. Ho ritenuto che non ci fossero le premesse per una serena moderazione da parte mia.
Capisco che le foibe siano un argomento controverso, in cui una ‘parte’ cerca continuamente di zittire l’altra, ed è per questo che l’evento di oggi è stato organizzato: per discutere serenamente. Ma il sereno dibattito si può uccidere in molti modi, anche senza fare ricorso a metodi fascisti come urla e violenza fisica. Tra questi modi: difendere a spada tratta una parte coinvolta andando ben al di là del compito dello storico, che è quello di esame, spiegazione e analisi, o cercare occasioni continue per mettere in difficoltà chiunque non aderisca al proprio pensiero, anche con modalità più o meno velatamente aggressive. Vedere pregiudizi nelle interpretazioni altrui, ma non nelle proprie, oppure rivendicare questi pregiudizi come legittimi in sede storica.
Mi pare che questi metodi siano stati impiegati, forse non con intenzioni ma sicuramente con effetto intimidatorio, nei miei confronti, fino a spingermi a rinunciare al ruolo di moderazione lasciandolo a una persona meno ‘compromessa’ agli occhi di una parte in causa. E nella ricerca storica, a mio parere, non dovrebbero esserci ‘parti’.
