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ripensando a Cannes 67 (un bilancio molto personale)

Creato il 30 maggio 2014 da Luigilocatelli

Signatures pour web et presse carre.inddAnche l’edizione numero 67 del festival di tutti i festival – nessun altro può neanche lontanamente competere con Cannes – è finita. Perfino gli americani, che pure sono i dominatori del cinema e a casa loro hanno gli Oscar, ne sono affascinati e intimiditi. Cerimonia di premiazione sabato 24 maggio, ma il giorno dopo sono continuate fino a notte le repliche dei film della selezione ufficiale per chi se ne fosse perso qualcuno nei giorni concitati e sempre troppo affollati del grande cine-circo. Il mio ultimo film prima di partire, recuperato last minute, è stato il greco Xenia, presentato a Un certain regard, storia di due fratelli, uno gay l’altro no, cui la defunta mamma cantante ha trasmesso la passione per Patty Pravo e le sue canzoni. Si ascoltano La bambola, Sentimento e Tutt’al più, pezzo che uno dei due fratelli esegue live alle audizioni di un talent show, e fa un certo effetto tanta devozione greca per la Patty nostra, la quale compare a sorpresa nella scena finale mandando aux anges il fratellino gay.
Nel caso a qualcuno interessasse saperlo, Xenia è stato il 43esimo film che ho visto a questo Cannes. Tanti? Sì, ma solo una parte della sterminata offerta tra Festival vero e proprio e le due rassegne indipendenti Quinzaine des Réalisateurs e Semaine de la critique. Per non parlare delle proiezioni del Marché. Il popolo del festival si divide in due tribù, nettamente distinte e raramente comunicanti. Chi ci va per seguire celebrities, red carpet, feste e vari eventi social, e chi per vedersi i film, e vederne il più possibile. Appartengo alla seconda, e dunque non mi si chieda com’erano vestite Marion Cotillard o Nicole Kidman o Monica Bellucci sulla Montée des Marches, non lo so, io lì a bordo tappeto rosso non c’ero, non ci sono mai andato, le star le vedevo semmai alle conferenze stampa, ben messe sì, ma non in tenue de soirée. Le due tribù al massimo si sfiorano, ma non si incontrano mai o assai raramente, anche per via degli orari sfalsati dei rispettivi impegni. I cinefili con accredito stampa come me i film se li vedono parecchie ore prima delle proiezioni ufficiali, qualche volta il giorno prima, e, mentre le star fanno la passerella per presentarli, loro son già da qualche altra parte, a vedersi magari un oscuro ma sperabilmente bellissimo film norvegese o indonesiano o del Mali. Questione di gusti, soprattutto di scelte. Perché a Cannes o fai l’una o fai l’altra cosa, tutte e due non si può. O, almeno, se fai tutte e due non riesci a coprirle come vorresti.
Allora, parlando di film e solo di quelli, che festival è stato? Molto buono, con almeno cinque grandi titoli (mi limito alla Compétition): Winter Sleep, Mommy, Foxcatcher, Deux jours une nuit, Leviathan. Il primo, del turco Nuri Bilge Ceylan, giustamente premiato con la Palma d’oro: era il migliore. Gli altri entrati in vario modo nel palmarès, a parte Deux jours une nuit dei fratelli Dardenne che non si è preso niente, ma che farà lo stesso il giro del mondo, con una Marion Cotillard strepitosa quale proletaria che sta per perdere il posto di lavoro, e per la quale qualche sito americano parla già di candidatura all’Oscar. Tutti basiti per il Grand Prix, il riconoscimento più importante dopo la Palma d’oro, assegnato a Le meraviglie della nostra Alice Rohrwacher. Siamo sinceri: non se l’aspettava nessuno. Freddamente accolto dai giornalisti italiani e anche da molti stranieri (un importante giornale Usa si era chiesto se fosse proprio il caso di metterlo in concorso), pure un po’ fischiato al primo press screening, ha portato via un riconoscimento che sarebbe stato più giusto assegnare ad altri, ai Dardenne per esempio, o al russo Leviathan, un altro film che farà parecchia strada. Temo che del Cannes di Alice Rohrwacher ricorderemo, più che Le meraviglie, quel suo strano e un po’ contorto discorso, al momento di ritirare il Grand Prix, sulle punture delle api come antidoto ai reumatismi, diventato subito un tormentone sui social network (spiega: il papà della ragazzina protagonista fa l’apicoltore). C’era poco altro di italiano sulla Croisette. Più buio di mezzanotte, dato alla Semaine de la critique, è passato nell’indifferenza, mentre è piaciuto parecchio a Un certain regard Incompresa di Asia Argento, la quale ha confezionato il suo migliore film da regista finora. Chi si aspettava qualcosa di musone e di dark, insomma alla Asia, è rimasto spiazzato. Incompresa è il racconto di un’infanzia complicata con due genitori impossibili (interpretati da Charlotte Gainsbourg e Gabriel Garko), ma sorridente e senza maledettismi, e potrebbe diventare un buon successo di pubblico.
Almeno quest’anno dal punto di vista climatico è andata bene: c’era il sole, ed è una notizia, dopo due edizioni funestate dalla pioggia in cui ti toccavano file di ore sotto l’acqua per entrare in sala. Già, le file, un flagello dei festival di cinema e soprattutto di questo. Tutti a dirti: beato te che sei a Cannes. Non hanno idea di cosa voglia dire mettersi in coda un’ora, anche due ore prima, per poter essere sicuri di vedersi un film (e la prima proiezione stampa è alle 8,30 del mattino). Perché Cannes è così, arrivano migliaia e migliaia di giornalisti e devi lottare per trovare un posto. Come ha scritto un critico americano, Cannes è l’unico posto al mondo con una tale isteria cinefila che le folle accorrono, si mettono in coda, si sottopongono ai peggiori supplizi (spintoni, modi rudi della security e quant’altro) per potersi vedere – come è successo quest’anno – un film turco di tre ore e venti (Winter Sleep, poi Palma d’oro) o l’ennesimo, astruso Jean-Luc Godard (Adieu au langage). Però la dannazione vera del festival, di ogni festival di cinema, sono i film che avresti voluto vedere ma non hai potuto. Per la sovrapposizione di orari, perché sei arrivato all’ultimo secondo e non ti han fatto entrare. Perché, semplicemente, c’è un limite all’umana possibilità di vedere più di quattro-cinque film al giorno (e di scriverne). Ecco, me ne sono visti 43, eppure son partito con il rimpianto di essermi perso l’ucraino The Tribe e lo psycho-horror americano It follows, tutti e due presentati alla Semaine e, pare, strepitosi. Questo è Cannes, bellezza.


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