Anche se alziamo dei pollici, ci impicciamo dei fatti altrui, cambiamo ogni due giorni la foto del profilo, mettiamo cuoricini dappertutto e aderiamo a cause umanitarie sentendoci davvero più buoni e più stanchi, come se il nostro no all’abbandono dei cani in autostrada corrispondesse al fisico monitoraggio delle autostrade, non significa che siamo socialmente disfunzionali e culturalmente trogloditi. Il diritto al cazzeggio dovrebbe essere garantito dalla Costituzione e Fb lo tutela al massimo, inventando ogni giorno nuove possibilità (mi piacciono molto le foto che si muovono).
Nel 2008, però, Annalena si chiedeva se il social network creato da Mark Zuckerberg “è un aggeggio sfasciafamiglie o il trionfo dell’equivoco?”, per poi concludere: “Comunque è un gioco pericoloso”. Gli interrogativi se li pose dopo che una collega, prossima al matrimonio, ha lasciato il fidanzato per via di Facebook. Dunque, secondo la giornalista del Foglio, Fb rappresentava
Un nuovo moltiplicatore d’ansia, un nuovo occhio che guarda ed equivoca, sempre, perché accettare o cercare amici su fb non equivale esattamente a frequentarli o a volerci passare la notte (un saggio gruppo su fb si chiama: che mi aggiungi a fare su fb se poi per strada non mi saluti), ma tutto viene amplificato dalle foto, dalla strana sensazione del pubblico che guarda, dalla sospettabilissima possibilità di chattare a qualunque ora della notte, dalle frasi misteriose che molti gettano lì apposta, e che paiono sempre destinate a qualcuno di segreto ma connesso e incluso fra i contatti. Fingersi liberi, disinvolti, stronzi e bellocci, finché il gioco dura (scriverne, si sa, ne accelera la fine), o finché lei non sfascia il computer con un’accetta.
Magari ancora oggi Fb, per Annalena, è un moltiplicatore d’ansia. Ma a distanza di tempo abbiamo imparato a controllarla e ad accettarla. E lontani da Facebook, ora, la vita è impossibile. Come facevamo prima senza?