Si è conclusa ieri la fashion week milanese che ha dettato le sue regole e i suoi stili per la moda autunno/inverno 2013-14. Stilisti, addetti stampa, giornalisti, blogger e voguiste hanno atteso con ansia questa collezione, dopo una pausa durata 6 mesi (come ogni spazio temporale che intercorre tra una sfilata e l’altra). File interminabili, panico e caos, sfrenate corse in taxi da una location all’altra, van della Camera della Moda pieni all’inverosimile e modelle in corsa su gambe-fuscelli per arrivare in tempo al loro appuntamento di lavoro. Eppure tutto questo friccicorio milanese è talmente vivo e profuma così tanto d’avanguardia che non si può che ammirare estasiati questo formicaio brulicante di addetti ai lavori-settore moda. Noi, dal canto nostro, tiriamo le somme e giudichiamo, talvolta criticando, talvolta ammirando lo splendido operato di questa macchina immane che fa conoscere e amare il made in Italy in tutto il mondo.
Dal 20 al 26 febbraio le griffe più importanti si sono contese spazi eleganti e aristocratici, futuristi e di design, essenziali ma famosi per far risaltare al meglio le loro collezioni. Riuscendoci. Sulle passerelle ha fatto capolino una moda garçonne in stile anni Venti, che mescola il maschile al femminile, i preziosi ricami geometrici al posto dei più rassicuranti floreali, reinterpretando la giacca sotto nuove forme (Armani). Abbiamo visto uno stile architettonico avanzare a passi decisi incagliandosi in vestiti corti, per dare vita a pezzi astratti, quasi unici, dalle forme lineari ed essenziali, dove a fare la differenza sono i materiali come cachemire e alpaca (Salvatore Ferragamo).
Si è perso un po’ quel rigore e quella precisione volutamente perfezionista per lasciare spazio a finti errori, quasi sbavature, per dare più movimento e sregolatezza al fine di sporcare la perfezione: ecco quindi gli orli tagliati a vivo, i bottoni a pressione a scomparsa e l’effetto infeltrito della lana (Bottega Veneta). Su questa linea ha proseguito anche la tanto attesa collezione di Prada che, facendo dell’aggettivo “crudo” il dictat del suo lavoro, ha puntato a forme rigorose, tagliate, quasi primordiali, come un ritorno alle origini. Ricami lasciati interminati, stoffe pesanti gettate addosso come maxi coperte, gioco di Vichy aumentato spropositatamente per renderlo più grossolano. Un contrasto ancora più evidente se associato, invece, alla collezione made in Sicily di Dolce e Gabbana, volta a celebrare il sacro attraverso il profano, riprendendo la processione di Sant’Agata di Catania, festa preziosa e luccicante. Da qui gli ori, i pizzi e le pietre preziose, i ricami e i barocchismi che esaltano il valore della sartorialità contro una moda sciatta e low cost. Proprio ciò che vuole essere ed è il made in Italy fuori dai suoi confini: simbolo di qualità e maestria.
(foto di styleandfashion.blogosfere.it)