In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne ho deciso di raccontare un pezzo della mia storia, perchè certe cose non dovrebbe viverle nessuno, ma purtroppo accadono, e quando accadono l’unica cosa da fare è affrontare le proprie paure e riprendersi la vita.
“La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi, e quando sarà passata non ci sarà più nulla, soltanto io ci sarò.” – Paul Muad’Dib, Dune.
Non le volevo scrivere queste righe, era un’ammessa di sconfitta; un’umiliazione.
Mi chiamo Sana, ho 26 anni.
Da quando ne avevo 16 sono stata con un ragazzo, credevo fosse il mio grande amore, e invece si è rivelato essere un incubo, il peggiore, quello da cui ci vuole troppo a svegliarsi.
Sarebbe stupido raccontare l’inizio della storia, è come tutte quelle storie che sembrano a lieto fine: una ragazza perde la testa, viene corrisposta, molla tutto per il grande amore e vissero tutti felici e contenti; si, per nove lunghi anni.
E poi?
Poi inizia quella parte della favola che nessuno racconta mai, quella in cui l’eroina della storia diventa vittima, a volte inconsapevole, di una violenza bestiale.
Chiunque mi conosca faticherebbe a vedermi vittima di chicchessia; si, perché io sono sempre stata una “tosta”, di quelle che non si facevano mettere i piedi in testa mai, da nessuno.
Quelle che rispondono per le rime e senza mezzi termini a professori, amanti, amici, fidanzati.
E se ripenso a quello che ho vissuto anche io faccio fatica a riconoscermi.
Quando la nostra storia ha iniziato ad andare male io non volevo arrendermi, anzi, all’inizio era inconcepibile persino pensare di lasciarsi; e quindi discutevamo, litigavamo, parlavamo, giorno e notte, ventiquattrore su ventiquattro; un inferno.
E era sempre colpa mia.
Che non ero abbastanza.
Mai.
Non ero abbastanza carina, intelligente, accondiscendente.
Era colpa mia che non mi facevo mettere i piedi in testa, che non accettavo di essere solo una piccola parte di quello che lui voleva da una donna e che, logicamente, non può stare tutto in una persona sola.
E dopo mesi e mesi di discussioni io non ne potevo più.
Glielo chiedo gentilmente, di lasciarmi stare per un po’, mezz’ora, per poter rimettere insieme i pensieri.
No, non si può.
È un tormento continuo, una goccia cinese.
Passo dalla calma alla rabbia alla disperazione.
Mezz’ora, trenta fottuti minuti di pace, glielo chiedo piangendo.
No.
Afferro il mio lettore mp3, tante volte salvatore dei miei pensieri annebbiati; me lo strappa dalle mani.
Accendo le casse del pc e metto la musica, lui le spegne e mi impedisce di avvicinarmi per riaccenderle, tento di parlarci, di spiegargli…non c’è verso.
Decido che allora voglio uscire, è meglio allontanarmi e sbollire perché in quel momento non sopporto nemmeno di guardarlo in faccia…e poi è successo.
Lui, quella persona che io amavo con tutto il cuore, quella persona per la quale sarei morta ha fatto qualcosa di inaudito, totalmente inaspettato; mentre vado verso la porta mi ha afferrata per le spalle, impedendomi di uscire.
La prima reazione è istintiva: reagisco, mi incazzo. E ce le prendo.
Non importa quanto io mi dimeni, è fottutamente più forte di me.
Sono accecata dalla rabbia, tento di guadagnarmi la porta di casa per arrivare alla luce, all’aria che mi serve per riuscire a ricominciare a pensare e capire cosa stia succedendo.
Mi ferma, mi afferra e io non ci vedo più dalla rabbia, dalla paura, l’aria manca.
L’idea di dover restare rinchiusa, di non potermene andare è insopportabile.
Uscire da quella casa: è tutto quello che riesco a pensare.
Ma non ce la faccio più, sono stanca e dolorante, ci siamo già azzuffati altre volte, so che non posso farcela con la forza; afferro il cellulare, con l’idea di cercare aiuto, me lo strappa dalle mani e se lo infila in tasca; provo col telefono di casa, ma in attimo stacca la spina.
Inizio a essere seriamente spaventata ma tento di non farmi prendere dal panico e mi guardo attorno in cerca di una soluzione, la vedo: c’è la mia pagina facebook aperta e, ringraziando dio, batto sulla tastiera alla velocità della luce. Peccato che la mia connessione non sia alla velocità della luce, divelge la centralina fastweb dal muro, come una bestia, strappa i cavi.
Ora si, che non ho via di scampo; mi prende il panico.
E la sua faccia non è più la stessa, è una faccia che fa paura.
Gli chiedo ancora di lasciarmi uscire, ancora me lo nega: dobbiamo parlare.
Le tento tutte, suppliche, minacce, attimi di distrazione in cui tento di gettarmi alla cieca verso la porta: mi ferma sempre, non cede.
Sono nel panico più nero, voglio solo che mi stia lontano.
Ma non lo fa, mi dice che se ora ci abbracciamo le cose andranno meglio, che non capisco.
Lo tengo lontano in tutti i modi, non voglio che mi tocchi, mi terrorizza solo l’idea; ma lui mi abbraccia, tenta di baciarmi, mi dice che non devo preoccuparmi.
Io penso che qualcosa nella sua testa non va, che è bacato forte, e che io sono chiusa in una casa da sola con un pazzo e senza possibilità di comunicare col mondo, viviamo in un paesino e se urlo nessuno mi si filerà, qui l’omertà regna sovrana.
Cosa succederà adesso? Impazzirà del tutto? Mi picchierà ancora? Mi ucciderà? Chi può saperlo…
L’unica cosa che riesco a fare è pregare, io, che non sono mai stata religiosa, io, che non ho pregato mai.
L’idea che potrei morire sola, lontano da tutti quelli che amo mi annienta, ma non vedo via di scampo e quindi prego, prego che se proprio devo morire mi sia concesso di morire almeno con dignità e senza supplicare il mio assassino; che se proprio devo morire preferisco farlo combattendo per tentare di trovare un’ultima volta la libertà di decidere di me stessa e per me stessa.
All’ennesimo tentato approccio rispondo con ferocia, una ferocia inaudita, sono stremata e terrorizzata ma la forza della disperazione mi fa trovare il coraggio.
Quando mi rialzo corro verso la cucina, afferro un coltello e glielo dico chiaro: “se mi tocchi ancora ti ammazzo.” Lo dico, ma non so se avrò davvero il coraggio di farlo.
Mi raggomitolo in un angolo e aspetto, nonostante mi tremino le mani il coltello non lo mollo mai, ma non riesco a smettere di piangere.
Finalmente desiste dall’idea di toccarmi, mi si siede davanti e parla, parla, parla.
La voglia di urlargli in faccia è tanta, ma mi chiudo in un mutismo cieco e aspetto, le tre ore più lunghe della mia vita.
Alla fine cede, mi ridà il cellulare.
Chiamo un’amica che vive a Perugia, in due ore è de me assieme al suo ragazzo.
Io ho fatto le valigie, ho mantenuto una calma inaudita, di cui non mi credevo capace, ma solo quando mi trovo dietro le loro spalle mi sento al sicuro.
Passano mesi di nebbia, in cui tento di distanziarmi in tutti i modi, ma non è facile, non è facile per niente.
Ma ogni volta che tento di metterci un po’ di umanità, di fare uno sforzo per dare un po’ di rispetto a una persona che ho tanto amato vengo ferita.
È un continuo di soprusi: lui che si sente in diritto di spiarmi mentre parlo con le mie amiche, di sputare giudizi sui nuovi ragazzi che frequento, lui che si rifiuta di andarsene da casa mia quando glielo chiedo, che mi minaccia, che quando non gli do quello che vuole urla e mi chiude al muro, che mi impedisce di scendere dalla macchina, che mi insulta.
Alla fine persino la mia pazienza ha un limite.
Arriva una volta che è l’ultima, arriva una volta in cui ne fa una di troppo.
E lì inizia un incubo peggiore: 170 telefonate in un giorno, e poi si presenta sotto casa mia con altre due persone.
Io chiamo i miei amici, sono nel panico, terrorizzata dall’idea che tutto ricominci da capo.
E loro diventano i miei angeli: nel giro di mezzo pomeriggio divento una donna sotto scorta, non mi lasciano mai sola, mi ospitano a turno e mi indirizzano a un centro antiviolenza.
Lì mi spiegano come funzionano le cose, che quello che sto subendo si chiama stalking e che la legge è dalla mia parte.
Mi offrono assistenza legale ma soprattutto supporto psicologico, perché una cosa così lascia ferite invisibili.
Invisibili anche a noi stessi.
Perché oggi, a distanza di un anno, mi accelera ancora il cuore a tremila ogni volta che vedo una macchina uguale alla sua, perché ci ho messo mesi a riuscire ad avvicinare di nuovo un ragazzo, ad abbracciarlo; perché ho convissuto per un anno con gli attacchi di panico, perché ho una paura cronica di fidarmi delle persone, e solo grazie alla comprensione che ho trovato negli altri sto riuscendo a superare a poco a poco questa cosa.
Perché ho evitato per mesi la zona dove abita il mio ex, e l’ultima volta che ci sono passata in compagnia di un amico mi guardavo attorno con il terrore di incrociarlo.
Perché sentirsi ripetere di continuo da una persona che amiamo che siamo pazze, inadeguate, incapaci, deboli, ci instilla il dubbio che quelle cose siano vere.
Perché la paura che le cose sfuggano di nuovo al nostro controllo ci porta a diventare maniache del controllo, rendendo le situazioni invivibili e ingestibili.
Perché si vive nella paura, anzi, nell’intima convinzione che tutte le persone che incontreremo ci tratteranno allo stesso modo, e finiamo a far scontare a persone in buona fede che si stanno comportando benissimo una serie di paure e colpe che non hanno generato loro.
E potrei andare avanti ancora a lungo con la lista…
Per me le cose da qualche tempo sono migliorate, mi sento più serena e non ho più così paura di incontrarlo per strada; ho ripreso a frequentare tutti quei (pochi) posti che avevamo in comune, e se per qualche motivo devo passare dalle sue parti lo faccio senza tentare di nascondermi e con la testa alta.
Perché non sono colpevole di nulla, perché quando finiamo a evitare di fare qualcosa, di andare in un posto, è ancora peggio.
Loro, bastardi, hanno già vinto. Ci hanno instillato abbastanza paura perché non ci sia bisogno di chiuderci in casa, lo facciamo già da sole.
Ma così siamo già morte.
Ogni volta che arretriamo e rinunciamo è un pezzetto di noi che muore.
Allora, come diceva Martha Medeiros, evitiamo la morte a piccole dosi, impariamo a difenderci, a riprenderci quel sacrosanto diritto che abbiamo di vivere, libere così come siamo nate.
E raccontare questa storia non è più una sconfitta, un’umiliazione.
È un tendere la mano, un dimostrare che dalla violenza si guarisce, che ci è dato reagire.
E reagire per difendersi, per riprendersi la libertà non è sbagliato, mai.