Riprendiamoci il silenzio, che è l'inizio della saggezza
Creato il 13 maggio 2012 da Astorbresciani
C’è un posto, nel mondo, così silenzioso che nessuno è stato capace, fino ad oggi, di restarvi per più di 45 minuti. Si trova nello stato americano del Minnesota ed è un luogo artificiale, una camera anecoica dalle pareti isolanti spesse oltre 3 m. all’interno della quale il silenzio è quasi totale. Questa stanza impermeabile anche al più piccolo rumore (ne viene assorbito il 99,9%) è stata creata nel 2004 dalla Orfield Laboratories e costituisce una sorta di banco sperimentale, utilizzato, fra gli altri, dalla NASA. Chiunque abbia accettato di provare il silenzio integrale, “assordante”, che forse è riscontrabile, in Natura, solo nella stratosfera o all’interno di una caverna profondissima, ma a determinate condizioni, non ha saputo resistere nemmeno un’ora. Pare che l’esperienza extrasensoriale nel luogo più silenzioso della Terra sia insopportabile e provochi uno squilibrio mentale. Forse il nostro udito, ormai assuefattosi all’inquinamento acustico, è refrattario all’assenza di suoni, e il nostro cervello ha bisogno di stimoli continui. Ebbene, restare chiusi in un posto buio dove non si odono vibrazioni, scricchiolii e fruscii e perciò la rumorosità di fondo è di – 9,4 decibel (mentre una normale conversazione ha un volume di ca. 60 decibel), mette a dura prova il nostro intelletto e insieme lo spirito. Sta di fatto che il silenzio ci disorienta e crea angoscia nell’animo. Occorre sottolineare un fatto curioso: più siamo immersi nel silenzio, tanto più sono le cose che sentiamo. Quali? Il battito del nostro cuore, il nostro respiro, lo stomaco che brontola, ecc. Sentiamo anche i nostri pensieri e la voce della nostra coscienza, abitualmente soffocata dai clamori del mondo. Credo che solo gli audiolesi siano in grado di sostenere questa condizione estrema, giacché il silenzio, che il Talmud considera “il rimedio di tutti i mali”, è per l’uomo contemporaneo una sorta di supplizio. L’altro giorno, dovendo iniziare il turno di soccorritore volontario in Croce Azzurra alle 6h del mattino, ho avuto modo di apprezzare il silenzio che precede l’alba nel giardino di casa mia. Non era un silenzio totale; gli uccellini iniziavano a fare gazzarra. Però non davano disturbo, il loro cinguettio non era invasivo né continuo come i suoni che avrebbero riempito l’etere di lì a un paio d’ore, soprattutto il rumore delle automobili e delle attività umane, fra cui il logorroico, inutile travaso di parole dalle bocche. Mi sono goduto quei momenti di pace, ho assaporato con voluttà il silenzio che invita alla riflessione e alla contemplazione, che ritempra e da sempre costituisce l’anima delle cose. Le stesse sensazioni, per altro, è facile coglierle nel cuore della notte o nei luoghi più isolati. Mi è capitato spesso d’immergermi in un silenzio ristoratore e di fare silenzio dentro di me, così da udire il canto della mia anima. È una sensazione bellissima, un’emozione forte e piacevole. Ed è, effettivamente, un rimedio. Seneca diceva che “le miserie della vita insegnano l’arte del silenzio”. Parole d’oro, come il silenzio per l’appunto. In questi giorni mi è capitato di meditare su come l’uomo rifugga il silenzio, lo tema a causa degli interrogativi che suscita, quasi ci costringa a prendere coscienza della nostra vacuità, della stupidità con cui agiamo, degli errori che commettiamo in nome del progresso, del benessere, dell’interesse. Invece, mai come in questo momento dovremmo cercare il silenzio, entrare in intimità con noi stessi. L’umanità è disorientata perché è frastornata. Il rumore scandisce la nostra vita, la abbruttisce. E sia chiaro, non mi riferisco solo ai rumori prodotti dalle macchine, dal lavoro, dai fenomeni atmosferici e artificiali, dagli ingranaggi e dagli apparecchi mefistofelici a cui ci unisce un invisibile cordone ombelicale, a cominciare dal telefonino. Parlo soprattutto dei rumori che produciamo con la bocca: gli sproloqui e i vaniloqui, le chiacchiere, gli schiamazzi, gli strilli, le farneticazioni, le volgarità, i discorsi sterili e dannosi. In una parola, il baccano che produciamo e di cui nutriamo chi si relaziona con noi. La baraonda che induce nei sensi repulsione e insieme una sorta di orgasmo. È come se non potessimo fare a meno di dare fiato alle trombe, di scoreggiare con la cavità orale, discutere, inveire, gracchiare, esprimere il nulla limaccioso in cui siamo immersi come rospi gracidanti nella palude. La verità è che ci piace stare a mollo nel fango. Amiamo i pettegolezzi, adoriamo pavoneggiarci con le frasi fatte o sciocche, usiamo l’intercalare come fosse prezzemolo e non ci preoccupiamo del fatto che le parole non si possono infilare come le perle, perciò sfuggono. Poco conta che il nostro vocabolario sia ridotto al lumicino, che un nuovo analfabetismo avanzi. L’importante è che la lingua faccia ginnastica. Rem tene, verba sequentur– dicevano i latini. Afferra i concetti e le parole verranno da sole. No, non è più così. Oggi le parole sono penose e i discorsi inutili, futili, stancanti. Forse, il vero problema è che non ci sono i concetti; come possiamo aspettarci frasi intelligenti? Basta guardarsi attorno. La televisione ha sancito la subordinazione della parola rispetto all’immagine. Oggi conta solo l’immagine, possibilmente arricchita di effetti speciali. I giornali non sono da meno, spendono parole confuse per raccontarci che il mondo è prigioniero del rumore compulsivo che ha creato. Ovunque si grida, si usa la parola per inebetire, confondere, ingannare, offendere, esaltare il proprio Ego. Tutti fanno sfoggio di parole, tanto non costano nulla, ma di quale qualità? La grammatica e la sintassi sono desaparecidos. Dai politici alle massaie, è una sarabanda rintronante di sfoghi verbali, grida, propositi degni di Pinocchio, deliri, vaneggiamenti frivoli. A che pro? Mark Twain diceva che il rumore non dimostra nulla e faceva il caso della gallina che appena fatto un uovo schiamazza come se avesse espulso dall’ano un asteroide. Beh, viviamo in un’epoca in cui le persone schiamazzano come se l’asteroide l’avessero avvistato e stesse precipitando sulla Terra. In realtà, hanno solo fatto l’uovo. E così, assistiamo imbelli al trionfo di chi alza la voce e la usa come uno schiacciasassi, di chi vomita parole ma non comunica o comunica concetti sbagliati, di chi grida di più e perciò si aggiudica la vacca. Bisogna rassegnarsi. O forse no. Possiamo allontanarci dal putiferio, cambiare la colonna sonora della nostra vita. Non è necessario recarsi nel laboratorio di Minneapolis, esistono ancora tanti luoghi fisici – dai monasteri tibetani al Sahara, ma anche un semplice bosco – e dimensioni dello spirito in cui ritirarsi per evitare il contagio. Al pari della peste, l’ingordigia verbale ha ammorbato la società, l’ha devitalizzata per eccesso di vitalità, tuttavia disponiamo di una medicina universale: il silenzio fecondo e creativo. Riscopriamolo. Usiamo il silenzio come extrema ratio contro gli imbonitori, i parolai, i ruminanti e i sacripante che offendono il nostro udito.
Di grazia, mostriamo a chi ci spacca i timpani (per tacere del resto) che un bel tacer non fu mai scritto.
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