"In un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento".
Ogni 25 gennaio dal 2011, in Egitto succede qualcosa.
Nella data alpha del 2011 ebbero luogo le prime manifestazioni che da lì a poco avrebbero portato alla fine del trentennio Moubarak; negli anni successivi, in occasione del suo anniversario, manifestazioni e processioni sono finite sulle pagine della stampa estera per il delta violento in cui sono confluite, raggiungendo il picco sconcertante di una quindicina di morti l’anno scorso.
Il 25 gennaio di quest’anno il 28enne friulano Regeni, dottorando di Cambridge volato a settembre al Cairo per fare ricerca presso l’Università Americana della capitale, scompare mentre si avvia a una festa di amici, e il suo corpo senza vita viene ritrovato il 4 febbraio nella periferia della capitale.
Secondo le prime ricostruzioni e la prima autopsia il giovane è stato vittima di torture effettuate dalle forze dell’ordine a seguito di un arresto ancora avvolto nel mistero.
Nonostante nelle ultime ore si sia parlato molto del suo legame con il quotidiano Il Manifesto per il quale Regeni aveva pubblicato qualche articolo e del giornale si sia criticata la leggerezza con cui ha permesso a un giovane e inesperto freelance di operare in una zona pericolosa e in un ambiente repressivo come quello egiziano, resta indispensabile chiarire il vero motivo per cui Giulio è diventato un individuo sospetto: il giovane dottorando ha probabilmente cominciato a essere tenuto sotto controllo non solo per gli articoli saltuariamente mandati (e non sempre pubblicati ) a Il Manifesto, ma per l’oggetto della sua tesi di dottorato.
E la decisione di andare in Egitto precede quella della collaborazione con Il Manifesto, non le è contemporanea.
Le responsabilità della sua presenza in Egitto sono molteplici: secondo alcuni è colpa delle istituzioni universitarie che ancora autorizzano un genere di ricerca audace e controcorrente come quello che Regeni stava conducendo (ricerca sull’economia contemporanea locale, le sue spinte sindacaliste, e la repressione del governo) in un Paese in cui vige un forte autoritarismo; secondo altri una grossa responsabilità ce l’ha l’incentivo che Il Manifesto avrebbe dato al giovane Regeni nel continuare a scrivere articoli dal taglio polemico e critico.
Bisogna tuttavia avere il coraggio e la volontà di vedere un margine di libero arbitrio e scelta consapevole nella mente del giovane dottorando e di tutte quelle persone che, noncuranti degli effettivi o eventuali moniti provenienti dall’esterno, decidono lo stesso di partire, privilegiando lo studio sul campo e un lavoro di qualità rispetto al comodo lavoro di ricerca sul pc, facilmente effettuabile dall’ufficio di Cambridge.
Per chi studia o si occupa di Medio Oriente questi ultimi decenni (e chissà quanti ancora in futuro) sono stati (e saranno) decenni critici, faticosi e limitanti perché ognuno di noi deve e dovrà fare i conti con molteplici barriere che sono state erette dal 2001 a oggi.
Prima erano pochi i Paesi off-limit: magari l’Iran di Khomeini, Israele sotto Intifada, la Beirut degli infiniti bombardamenti. Ora i “luoghi NO” sono molti di più, la quasi totalità del mondo arabo: colpa dello Stato Islamico ma anche un po’ degli islamisti, di Al-Qaeda ma anche un po’ di Hamas.
Colpa insomma del terrorismo, che si è prima di tutto impadronito del senso di sicurezza dei turisti, riducendo questo settore economico alla miseria. Una volta posto l'off-limit ai turisti, terrorismo, guerre civili e regimi autoritari hanno iniziato ad attenzionare gli studiosi mossi da passione e volontà di conoscere e di lavorare. Oggi, a costoro sono preclusi il vedere con i propri occhi, l’empirismo, la vicinanza; tutto questo è ormai fortemente sconsigliato, quasi sempre scongiurato per chiunque voglia recarsi a sud o a est del Mediterraneo.
Anche nell’Egitto di al-Sisi, uomo che fino a un anno fa veniva dipinto come il perfetto presidente filo-occidentale con cui stringere mani, accordi e legami con tanto di sorrisoni immortalati in fotografie.
Piaceva perché impegnato nella lotta contro il terrorismo e perché aveva allontanato lo spettro dell’islamismo dall’Egitto, ma a chiunque capitasse di leggere articoli più scrupolosi dal 2013 a oggi, non sarà sfuggito che il suo governo indossava una spessa maschera coprente.
Di certo non è sfuggito nemmeno a Giulio Regeni, che ha deciso di recarsi in Egitto e di condurre una ricerca pericolosa sempre sul filo del rasoio, al punto da aver confidato i propri timori agli amici e di aver chiesto alla redazione de Il Manifesto di pubblicare i suoi articoli sotto uno pseudonimo.
Di certo non è sfuggito a tutti gli altri ricercatori, giornalisti e fotografi che negli ultimi anni hanno detto sì o no a un viaggio in Medio Oriente, trovandosi tutti empaticamente accomunati in un solo momento, quello prima della scelta. Difficile immaginare cosa significhi prendere una decisione del genere; ancor più quando si tratta di un Paese come l’Egitto - dove guerre o attentati terroristici non sono all’ordine del giorno, dove le Università mandano studenti senza problemi e per il quale diventa più facile pensare in modo fatalista e leggero: "Non sarà così pericoloso, e il gioco vale la candela, e comunque i risultati dell’autopsia erodotea sono sempre maggiori di quelli di una ricerca a distanza".
Quando si tratta di partire in zone pericolose del mondo - non per un viaggio, ma per lavoro e per passione - il concetto di colpa è relativo, quasi inesistente; non c’è colpa, ma solo responsabilità. La vicenda di Giulio Regeni ci mostra ancora una volta che il vero lato dell’Egitto non è sottovalutabile, anche senza i famigerati islamisti al potere, anche se assiso sul trono abbiamo al-Sisi (che Matteo Renzi ha definito “a great leader” e che, nonostante il rapporto stretto stretto con il nostro governo, non esiterà a nascondere e camuffare la verità su questa vicenda).
Giulio Regeni è l’emblema del nuovo orientalista, lo studioso del XXIesimo secolo che sceglie liberamente il rischio, l’incognita, il fatalismo e parte, consapevole come tutti quelli che studiano le sue stesse materie, che l’ipotesi del viaggio e dello studio in loco è implicitamente accettata nel momento stesso in cui si sceglie come oggetto di studio quella regione così turbolenta e "indisciplinata", quel povero e pericoloso Medio Oriente senza pace.
Elle Ti
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