Riportiamo qui di seguito il testo della relazione che abbiamo tenuto a un incontro organizzato a Villa Estense ieri sera nell’ambito della festa “Tempeston”, al quale siamo state invitate a parlare di “Riscossa Femminile” . Hanno partecipato al dibattito: Sara Puddu (vicepresidente dell’associazione “CollegaMenti”), Alessandra Moretti (vicesindaco di Vicenza, PD) e Raffaella Salmaso (Portavoce Regionale delle Donne Democratiche – Veneto).
Negli ultimi anni il discorso delle donne e sulle donne in Italia sembra aver ripreso vigore sul piano della discussione pubblica. Questo non significa che, nel frattempo, questo discorso si fosse interrotto dopo l’esplosione del femminismo negli anni ’60 e ’70. Tuttavia, in particolare per questioni legate allo scenario politico italiano, e alla necessità di opporsi all’ex premier Silvio Berlusconi, le istanze e le rivendicazioni delle donne sembrano essere state riportate in primo piano: in modi spesso strumentali rispetto agli scopi politici dei partiti, come spesso accade e con effetti quanto meno problematici per le tematiche sollevate dai movimenti delle donne, il ruolo delle donne nella società italiana e la questione del loro accesso a posizioni di rilievo in questa stessa società sono questioni che oggi impegnano, di nuovo, una parte importante del dibattito pubblico.
Può essere particolarmente opportuno, in questo contesto, parlare dei problemi legati al modo in cui il discorso sulle donne è condotto nel dibattito pubblico e ai paradossi che gli argomenti usati rischiano di produrre – o stanno già producendo, se si pensa all’ennesima auto-candidatura di Silvio Berlusconi e alla probabile presenza di una donna nella posizione di candidata vice-premier.
Nell’ambito delle riflessioni che portiamo avanti come gruppo ci sembra che il dibattito attuale soffra di due ordini principali di problemi: il primo è legato al modo in cui si difende il diritto delle donne ad accedere a pieno titolo all’ambito del lavoro, della partecipazione politica e della partecipazione sociale, ossia a tutto ciò che eccede le mura domestiche e dunque la cura della casa e della famiglia; il secondo ha invece a che fare con una questione fondamentale ancora gravemente irrisolta, ossia il rapporto tra uomini e donne che sta alla base dell’organizzazione della nostra società.
Quanto al primo ordine di problemi, è abbastanza chiaro come nel dibattito attuale sulle donne si punti molto sulle presunte “qualità femminili” per sostenere l’opportunità e la “convenienza” di misure finalizzate a garantire l’accesso delle donne a posizioni di potere sia dal punto di vista economico che dal punto di vista politico. Per quanto riguarda il modo in cui si difende la questione femminile, in altre parole, un grosso problema è determinato dalle argomentazioni che si portano a suo sostegno: tutte ruotano intorno a “doti femminili” spacciate per innate, che in realtà non sono altro che il prodotto del modo tradizionale di intendere il ruolo della donna.
Si pensi, ad esempio, alle cosiddette “quote rosa” nei consigli di amministrazione, nelle liste elettorali, o nei più diversi organismi rappresentativi. Naturalmente siamo d’accordo sulla necessità di garantire uguale rappresentanza a uomini e donne “ovunque si decida”, come recitava lo slogan della campagna UDI di qualche anno fa.
Le donne costituiscono la metà della popolazione italiana, e ci sembra naturale che un sistema democratico garantisca questa rappresentanza. Così naturale, a dire il vero, che l’onere della prova sta, casomai, dalla parte di chi la pensa diversamente. In altre parole, non c’è bisogno di nessun argomento particolare per giustificare la presenza delle donne nella sfera pubblica: ne facciamo parte a pieno titolo e non dobbiamo certo essere trattate – o pensarci – come una minoranza da tutelare o alla quale fare concessioni più o meno generose.
Proprio per questo, ci sembra assurdo e controproducente il richiamo alle famose, e presunte innate, “virtù femminili”: si pensi al gran parlare che si fa di quanto le donne siano più flessibili, comprensive, empatiche, pazienti. Questa non è altro che la banale generalizzazione di una natura femminile inesistente se non in un certo immaginario: se le donne sono state, tradizionalmente, più empatiche o più pazienti, questo è da ricondursi essenzialmente al ruolo nel quale sono state relegate. Un ruolo che si può efficacemente sintetizzare come ruolo di “servizio”, a vario titolo, nei confronti degli uomini e della propria famiglia.
Non solo auspichiamo che questo ruolo sia progressivamente abbandonato nel nome di una reciprocità e di una condivisione della cura intesa in senso generale; ma ci interessa richiamare l’attenzione sul pericolo insito nel richiamo a queste presunte virtù per “vendere” come economicamente conveniente la presenza delle donne nel lavoro e nella società in generale. Come se si trattasse, peraltro, di una scomoda minoranza la cui esistenza non può non essere accettata, ma il cui ruolo attivo nella società deve essere in qualche modo reso appetibile.
Come ha osservato Lea Melandri, voce autorevole del femminismo italiano, “che altro è la ‘femminilizzazione’ del lavoro, della politica, se non l’estensione di un ruolo tradizionalmente domestico all’intera sfera pubblica, la ‘riserva’ di energie chiamate in soccorso di una civiltà in declino?” (Amore e violenza, p. 70)
La verità di questa presunta riscossa femminile sembra essere un po’ meno piacevole di quanto il dibattito attuale voglia far credere. Ciò si comprende ancora meglio se esaminiamo brevemente le modalità di rappresentazione delle donne nella società e nei media. I modelli che vengono impiegati sono limitati, rigidi e riduttivi. Da un lato la donna è oggetto erotico deputato al piacere del maschio, dall’altro è moglie e madre. Ha ragione allora Melandri quando afferma:“il corpo femminile che oggi la fa da protagonista è dunque, da un lato, il corpo erotico, la seduzione e, dall’altro, il corpo materno … come valorizzazione delle ‘doti femminili’, una richiesta che viene anche dal sistema produttivo, dalla nuova economia. È quello che nelle ricerche dell’Università Bocconi si chiama il Valore D” (ibid., p. 74).
Siamo sicure di voler cavalcare quest’onda? Non è forse necessario, una volta per tutte, gettare uno sguardo più profondo e condurre un’analisi più radicale delle dinamiche tra i sessi che strutturano la nostra società?
Si apre qui il secondo ordine di problemi, quello più profondo.
C’è una verità scomoda di cui è necessario prendere atto: l’ambito politico ed economico, come hanno funzionato sino ad ora, si basano in modo essenziale su un’immensa quantità di lavoro gratuito femminile. Di ciò che riguarda la gestione della casa e della famiglia – se pure in un clima che negli ultimi anni ha visto un inizio di mutamento negli equilibri – si ritiene tuttora che siano le donne a doversi occupare in modo quasi esclusivo.
Il fatto stesso che la famosa questione della “conciliazione di lavoro e famiglia” riguardi tuttora sempre e soltanto le donne la dice lunga. E quello che ci dice è che la famiglia, la cura della casa, dei figli e degli anziani è ancora principalmente una faccenda di donne e da donne. Finché non si affronta questo problema, parlare di quote rosa sarà sì opportuno, ma risolverà gran poco.
Se si vuole garantire spazio alle donne, pensare di farlo lasciando intatte le dinamiche sociali in virtù delle quali privato e pubblico sono separati e il primo è occupazione e dovere esclusivamente femminile, il risultato dell’operazione sarà un carico insostenibile per qualsiasi donna – a meno che il discorso non ci interessi solo per le esponenti di classi sociali molto elevate, che possono senz’altro delegare i loro compiti “domestici” a qualcun altro: nella fattispecie, a donne meno privilegiate di loro, e ovviamente sottopagate.
È quindi necessario, anzi imperativo, ridiscutere gli equilibri tra i sessi: e visto che su questi equilibri si è retta l’intera società per come la conosciamo, se vogliamo portare avanti in modo serio il dibattito sulla questione femminile, dobbiamo ammettere come complementare e necessaria una questione maschile.
Ripensare il ruolo delle donne dall’interno, per così dire, porterà sempre a risultati parziali se non controproducenti per la qualità della nostra vita. Porterà – come è già accaduto e come sta accadendo – a strumentalizzare la questione femminile e a usarla come strategia elettorale a poco prezzo: e qui ritorno alle battute iniziali di questo intervento. Un dibattito superficiale sulla presenza delle donne in politica, come è stato condotto fino ad ora dalla politica mainstream, fa in modo che chiunque piazzi una donna in una posizione più o meno rilevante possa acquisire un vantaggio mediatico a cui fanno da contrappeso una “sostanza politica” e un cambiamento concreto dei rapporti sociali del tutto carenti, se non nulli.
Una questione essenziale in questo senso è quella della welfare: dove sono gli asili? Dov’è il tempo lungo nelle scuole? Dov’è l’assistenza sanitaria e sociale agli anziani? Sono disposti, gli uomini che tanto sostengono i diritti delle donne, a prendersi delle responsabilità? Delle carenze del sistema sociale, tradizionalmente, si fanno carico le donne.
La carriera degli uomini, e la loro possibilità di impegnarsi nella sfera pubblica, è garantita dal sacrificio di realizzazione personale e di partecipazione politica da parte delle donne. Si dice spesso che dietro ogni grande uomo c’è una grande donna. È il momento di ammettere che quella “grande” donna (o piccola, perché questo vale per tutti i livelli) è una donna che ha rinunciato alla sua vita e alla sua individualità per sostenere i desideri, le aspirazioni e i successi dell’uomo al quale è vicina.