RITA GUSSO
Gris de luna
Campanotto Editore (Udine) 2013
Ci sono parlate più adatte ad esprimere, a mio avviso, la malinconia del vivere, e sicuramente il veneto di Rita Gusso si presta perfettamente a portare a un giusto compimento poetico le immagini scaturite da una riflessione incipitaria riportata ad apertura: (Quando il bambino era bambino, / era l’epoca di queste domande: “Perché io sono io e perché non sei tu?” Perché sono qui e perché non sono lì?”… – Peter Handke da “Il cielo sopra Berlino”, 1987). E dunque, alla base di questa poesia, ci sono delle domande – si legga tutta la prima sezione in cui troviamo descritte le condizioni essenziali dell’essere – : «E ora che succede? / Se sono stata spinta qui / con questo da imparare / erede del perché / del non sapere, / solo contare i passi / da qui a là / so di ieri e immagino il domani / ma qui ora scossi / da questa faglia, chi lo sa / che si deve essere?». Si può scrivere, dunque, senza abitare una soglia? Può la poesia abituarsi a un inno incondizionato e imperituro, o a un lamento inestinguibile? Direi di no, perché nel mezzo di questi due opposti c’è la vita, l’infinita meraviglia della vita che inno e lamento contiene, insieme a molte altre infinite cose. Perché “Esiste una realtà concreta fatta di corpi / che se non viene accompagnata / da una realtà psichica diventa invisibile”, (Jodorowsky, citato dall’autrice). Questi testi, allora, accettano l’impossibilità della risposta e si dispiegano lungo tutto il fluire delle cose umane, cantandole nel tono intimo di una lingua vicina alle cose, una lingua che non graffia ma che, piuttosto, tende a sottolineare le fragilità, l’assenza corruttibile della realtà e degli esseri che la abitano. Nella sezione più drammatica del libro, “Pare de soriso, (Padre di sorriso)”, si avverte lo scivolare dell’essere verso qualcosa che si perde – il padre, il territorio ferito – e soprattutto, in forma metaforica, nella sezione successiva, la realtà di un olmo: «Lo hai mai visto / uno che va più fiero / di un olmo? / un giorno l’ho incontrato / e ammirato / ma non ho potuto trattenerlo: / non si può fermare / chi va per secoli.» La coscienza del poeta, dunque, insieme alle domande, non può che segnalare una rottura avvenuta tra il sopra e il sotto; per esempio, tra la terra (che ancora sa
suturare, disinfiammare) e l’aria; tra noi stessi, insomma, e tutto ciò che ci siamo lasciati alle spalle. «Ora che il pensiero non / corrisponde più al Sentiero», dice Rita Gusso a chiusura, «e il giorno va alla deriva verso / una vacua notte sospesa tra / il perire e il divenire».
Sebastiano Aglieco
in IL SEGNALE n.99/2015