Rita Pacilio: la scenografia è dentro la testa

Da Narcyso

Rita Pacilio, GLI IMPERFETTI SONO GENTE BIZZARRA, La vita felice 2012

Uno dei versi più belli di questa raccolta “la scenografia è dentro la testa”, ci suggerisce che la malattia mentale è un nascondimento ulteriore, la coltrina più profonda che separa il noi dall’altro da noi; ciò avviene senza l’ironia e la consapevolezza celata della recita sociale, piuttosto la totale identificazione con l’altro che ha mostrato il suo volto e ha preso possesso di un corpo.

Sembra siano attori di commedia
ripetono la parte e il ritornello
in modo serio vestono gli stracci
la scenografia è dentro la testa.

La malattia mentale, dunque, non permette la dichiarazione del dolore perché chi è malato non lo sa o non lo sa dire. Spetta dunque all’altro, l’altro che è rimasto qui, sul confine del mondo, recitare il requiem che assolve nelle parole, ma senza alcuna pretesa di redenzione nella vita. É , a ben vedere, il compito di ogni poesia, qualunque forma essa abbia, proprio perché la poesia, voce in sé fatiscente e confusa, deve, ontologicamente, costituirsi in forma e in questo travaso della voce nella materia che la dirà, si gioca il suo destino ad esistere.
Nello spazio della reclusione, doppia, dal mondo e da se stessi, sono le parole del poeta più recluso, quindi più tragico, che ci possono chiarire un aspetto della patologia:

Mentre dormiva leggevo
pregava con te Emily Dickinson:

(forse questi versi della Dickinson)

C’è una solitudine di spazio,
una solitudine di mare,
una di morte, ma
faranno lega tutte quante
a paragone con quell’estremo punto,
quella polare ritrosia
di un’ anima ammessa a se medesima.
Finità infinità
(1695 non datata, traduzione Cristina Campo)

e cioè la percezione sensoriale affinata che separa il dentro dal fuori; in questo caso la poesia di Rita Pacilio si situa nella linea di separazione della finestra, tra una casa e un lago. Della prima accoglie le metafore ardue e contorte provocate dalla visione dei corpi, del secondo la materialità degli elementi naturali, messi in relazione con la devastazione mentale, procedimento utile a costruire una topografia barocca del corpo storpiato, sintomaticamente, a questo punto, naturalissimo e realistico; in questo modo malattia e natura finiscono per coincidere.

Le cose distanti
assenti al nodo delle braccia
si lasciano alla corrente dei venti
come si fa con la vela in mare.

Le storpiature, storicamente reiterate sui corpi in martirio, sono immagini e tecniche che la parola spesso imita, o rinuncia volutamente ad imitare: duro espressionismo o pietosa cantilena. Ma anche in sinergia, e penso a Jacopone da Todi, al ritmo martellante della lamentatio o della nomenclatura ossessiva, in fondo giaculatoria raffinata – in sostituzione della preghiera – o forma popolare di essa.
Il testo di Rita Pacilio, poi, mi induce a una riflessione sulle forme della melopea e quelle, nervosamente più attive, dell’epos, confermandomi che il suo “non racconto” si innesta proprio nell’ entr’acte di un avvenimento risolutivo e un altro, al pari del canto sconsolato delle troiane che lasciano Troia come schiave – e ben sapevano i poeti tragici, che in fondo l’epos è parola di un’età dell’oro; racconto/favola di un’abnormità logica – il tempo del mito – che può essere compresa solo s/ragionando.
A mio avviso, e potrebbe sembrare paradossale, è proprio a una poesia ri/generata dopo l’epos, che tocca questo compito, presente, per esempio, in poeti assolutamente lirici come Paul Celan e Milo De Angelis – in effetti, lo sragionare comprende il ragionamento -
Nel testo di Rita Pacilio, questo avviene attivando metafore estreme, particolarmente tese ad arco, e tutte comprese in un nuovo corpo sunto di natura e umanità “L’amico di stanza è una corteccia/ successione di due allegorie/ una baia sottile di lima/ sa di mistero, di prima casa”.
Può, dunque, la contemplazione del mistero, essere forma di una preghiera s/ragionante? Direi di sì perché la malattia provoca domande, e in poesia le domande sono espresse in simbologie concrete, parole in/segnate dal naturale. Insomma: poesia è un ragionare per immagini.
Così il fratello, per ri/esistere, è trascinato fuori dal suo teatrino interno, lontano dalle voci, e riconsegnato al segno delle parole. La poesia, per fare questo, deve a sua volta rinunciare ai suoi altarini sociali, farsi una forma di testimonianza, drammaticamente tesa a un tentativo di robustezza formale, capace di segnare l’oggetto di cui parla, restituircelo quantomeno nella forma di una maschera viva e lacerata.

La malattia è oracolo spalancato sul Nulla, sull’incomprensibile. È la faccia neutra, scura, dell’oltremondo, aperta sugli altari del dolore: i letti d’ospedale, i campi di battaglia, i manicomi, le strade senza legge, i deserti di fuoco delle guerre, gli abissi dell’anima. E questo oracolo è un lampo che appare senza spiegazioni:

La prigione di mio fratello
è oracolo timido
probabile occhio spia
una pietra desolata

Sebastiano Aglieco

***

Sputa i suoi drammi
coi colpi di tosse
per gioco, per amore
scorie sottili nelle mani esibite

è latente lo scontento sulle spalle.

Gli imperfetti sono gente bizzarra
lasciati nell’arena, non so dire esattamente,
come un silenzio, un ghigno.
Ho pensato che Dio ama l’insicurezza
e le sfumature dei dirupi.

Io mi trovo qui dove non si torna indietro.

***

Da questo scuro cresciuto urtato
dalla mappa nella piaga dilaniata
tra singhiozzi ti aprirò il nome
come fa una rosa

ti porterò baci del sud e trecce
fino ai polsi e spine agli occhi
la penombra di una sconfitta
che in quel novembre abbandonato

senza casa nessuno aveva una parola.

***

I camici verdi gli camminano accanto
è una lenta collina che si muove
lacci e aghi senza aroma
a febbraio che trascorre svelto.

Dietro i vetri nessuno suona flauti
ormai le croste sono piaghe
se il capo sui ciottoli non fa rumore
allora i pensieri sono altrove.

Chissà cosa sogni quando tutto tace.

***

È un morso prudente l’oscurità
un disegno fatto di assenze.
Si denuda l’incavo della spalla
svuotato dalla mano
come un gheriglio
una lumaca.
Amore mio io sono questa:
la bellezza del circo,
la colpa di aver gridato
nel tuo gambo mendicante.
O forse
l’inquieto participio
e l’ora scandita del risveglio.
Non capirò mai niente del nome della sera
dei lampioni spogliati come donne
e di te che ti sfaldi sul muro di casa.

***

Sono il ciottolo ripudiato dall’oceano
mentre la vanga scava fino ai cieli d’estate
dove resta immobile il seme infuriato.
Difficile dirti adesso le foglie sulla via
quando file di formiche sui bordi
spalancano voragini nel suolo raffreddato.
Non chiedono perdono nè fanno lamento
le facce dei degenti
sotto giornali stesi come coperte al sole
perchè Dio li ama fino al mattino.


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