Ritorno al lavoro dopo il ponte befana. Che tutti sono rilassati e tranquilli e sorridono. Io, non è che volessi proprio avere l’aria rilassata ma almeno non puzzare. Ma andiamo con ordine come direbbero certi romanzieri.
Arriviamo direttamente dalla casa casertana, che la nostra casa a Roma ancora non è pronta. Siamo rimasti là fino a oggi, finchè non è stato più possibile vivere a due ora da Roma e fare avanti e indietro (io), allora abbiamo ceduto: bed and breakfast. Negli ultimi due anni abbiamo cambiato quattro case. Quando incontriamo un amico che non vediamo da qualche settimana non ci chiede come state, ma dove abitate adesso? Che è una domanda insomma; c’è davvero da chiederselo.
Ecco ora abitiamo in un bed and breakfast, a cinquanta metri dalla nostra nuova casa. Diciamo un avvicinamento lento e progressivo. Così, con la santissima pazienza di cui ormai ci siamo armati, questa mattina abbiamo fatto le ennesime valigie, caricato l’ennesima macchina, imboccato l’ennesima autostrada per tornare a Roma, diretti alla volta di Cedro 21, fantastico b&b nel cuore di Trastevere. Il viaggio è trascorso tranquillo, mezzo chilo di Plasmon in pasto all’Inuit per tenerlo calmo, un paio di litigate per telefono con l’operaio che non era andato sul cantiere, che scusa ma preso altro lavoro e tu slittato. CosAAAAAAAAAAAAAAAAA?????????? Come slittato? Vai immediatamente a finire lo smalto ai bagni. A costo di essere arrestata per sfruttamento di essere umano tu ora vai a stendere quell’accidenti di smalto.
Ecco. Mentre il viaggio scorre diciamo tranquillo e sereno in questo modo, la macchina si ferma. Uscita dall’autostrada, grande raccordo anulare. La macchina si spegne. E non parte più.
Si è spenta.
Come si è spenta?
Sì Silvia si è spenta, non riparte.
Ok ti richiamo dopo per i bagni e quando ti chiamo voglio sentire il rumore del rullo sotto. Chiaro?
Panico. Ci dobbiamo togliere di mezzo. Bambino in macchina. Spingiamo entrambi, alla fine dopo uno sforzo non indifferente riusciamo a spostare la macchina sul lato.
Quando siamo sicuri che i camion in arrivo non ci stanno per travolgere con tutte le nostre masserizie, ci risediamo in macchina e ci disperiamo. Che a scriverlo in un film mi avrebbero detto, troppo Silvia, togli un po’, alleggerisci che mica possono essere così sfigati questi.
Ah no?
Morale. Chiamiamo un carro attrezzi?
Mentre canto, rido sbuffoneggio per tentare di calmare l’ormai sempre più nervoso Inuit, il santuomo, sigaretta in bocca, cerca di far capire a un operatore dall’accento assai stranino dove siamo precisamente, in quale uscita, a quale altezza, in quale punto. Al terzo operatore finalmente va in porto, ma perché non ci mettono uno di Roma, no ti deve rispondere da Pechino uno che te manda il carro attrezzi sul Gra.
Passa mezz’ora. Richiama. Ci vuole un’altra ora almeno. Allora ditelo. L’ Inuit non si tiene più d’altra parte si avvicina l’ora di pranzo. Io rischio di farmi definitivamente licenziare. Decidiamo di chiamare un taxi. Che ovviamente non arriva. Ne arriva un altro, lo fermiamo a braccia (come si fa a New York ma immaginatevelo sul grande raccordo) e trasbordiamo. La carovana della Conquista del west sul raccordo anulare: una valigia, un borsone, un lettino da campo, buste varie, scatole, biscotti, sciarpe, un cacciavite giocattolo, cappotti, computer portatile, ciucci, un telefono finto, un passeggino rosa da bambino, un passeggino grigio vero, una palla, un seggiolone da viaggio, il porta piumone con dentro il piumone del lettino. Credo sia tutto. Ah il bambino. Sì ecco il bambino. Ok. Ciao. Facci sapere quando ti vengono a prendere.
Io l’Inuit e le masserizie partiamo alla volta di Cedro 21. Almeno questo sarebbe stato semplice se l’Inuit non avesse pianto e urlato per tutto il viaggio in taxi. Ha smesso solo quando siamo scesi per fare un bancomat, (che ovviamente non avevo contanti) e che facevo lo lasciavo in macchina col taxista, signò ma io so pure nonno, si lo so però… Che pensavo tra me e me ci manca solo che Imperia 16 scappi con il piccolo Inuit nel bagagliaio. Quindi sono scesa con due mani sole, e un bambino, un portafogli, un bancomat, un ciuccio e un cappello. Sembrava semplice.
E finalmente arriviamo davanti a casa. Siamo a casa amore. Cioè al bed and breakfast, quasi casa, vedi casa è quella, ora la vediamo da fuori ma vedrai che un giorno ci potremo anche entrare. Con un po’ di fiducia vedrai.
Arriva la tata, portiamo tutto dentro un appartamentino di venticinque metri quadri, e non faccio in tempo a scorarmi.
Perché nell’ordine, litigo con il lettino da campo per tentare di aprirlo, mi ricordo che non ho dato la medicina al bambino, la metto in una tazza con dell’acqua per scioglierla, lui vede l’acqua e urla che ha sete e che la vuole subito, ma la medicina è omeopatica e io non trovo un cucchiaino di plastica per girarla, cerco in tutta la micro cucina una posata che non sia d’acciaio, lui urla sempre più forte, allora decido di dargliela senza girarla ma quando lui arriva al fondo della tazza con la medicina non sciolta, lancia per aria la tazza, io mi butto per lungo ma non faccio in tempo a prenderla, la tazza va in frantumi, ed è il primo danno del conto finale, è proprio allora che chiama uno dei mie capi, lei che quando me l’hanno presentata mi hanno detto hai presente il diavolo veste Prada, peggio,che mi chiede sibilando perché io non sia ancora arrivata in redazione.
Mezz’ora dopo mi siedo davanti al mio computer, la mia collega mi chiede come stai? Io dico bene, ma se senti puzza d’ascella perdona. Sai i deodoranti sicuri al massimo resistono a una partita di tennis, mica a una giornata delle mie.