Rival Sons: Sold Out e Grande Rock ‘n’ Roll ai Magazzini Generali

Creato il 04 dicembre 2014 da Retrò Online Magazine @retr_online

I predicatori del rock ‘n’ roll sono approdati a Milano e ad accoglierli c’era una folla numerosa e desiderosa di musica. Mercoledì 3 dicembre, i Magazzini Generali hanno ospitato l’unica data italiana dei Rival Sons, in occasione del tour di Great Western Valkyrie, il loro quinto album. La febbrile attesa che si stava creando è stata placata da un concerto strepitoso: I quattro (ormai cinque) rocker di Long Island si sono presentati sul palco in gran rispolvero, sfoderando tutte le loro doti in vista di uno show destinato a rimanere impresso.

Foto scattata da Luay Houssein

Il locale si riempe all’apertura dei cancelli: la platea lunga e stretta e le balconate chiuse fanno sembrare il palco lontanissimo. In realtà non c’è difficoltà nel muoversi tra il pubblico che freme e se ne incontra ancor meno appena si cominci: Le danze si aprono con “You Want To”, e tutto si muove improvvisamente. I suoni sono di qualità fin da subito, la band suona precisamente e riproduce al meglio tutte le dinamiche del pezzo, mentre Jay Buchanan è già a capofitto nel suo caratteristico stato di ipnosi, portando a casa una performance canora straordinaria. Si prosegue con “Pressure and Time”, title track del loro secondo album. Stessa ricetta di prima, ma su una linea di cui i Led Zeppelin andrebbero orgogliosi. I suoni di chitarra di Scott Holiday sono impeccabili, e il drumming classico di Mike miley fanno da cornice perfetta alla linea vocale di Jay, che interpreta in modo magistrale la sua linea vocale. Si passa ad “Electric Man”, tratta dall’ultimo album, divenuta una hit fin da subito. Il riff di chitarra apre la canzone e la accompagna fino alla fine. Buchanan si scatena e canta con tutto il fiato che ha in corpo, senza dare segno di incertezza.

Tutto prosegue senza intoppi con “Good Luck”, altra perla tratta dall’ultimo lavoro in studio. Qui si sentono le chiare influenze Rhythm and Blues e Gospel, il break centrale viene allungato di qualche battuta per far spazio al pubblico, che in completa empatia con la band risponde prontamente. Ottima esecuzione da cui traspare una grande predisposizione all’improvvisazione. Dopo un piccolo break di ringraziamenti, si riparte con “Secret”, un boogie dai suoni acidi, sorretto da una sezione ritmica impeccabile. Qui si fa definitivamente strada l’organo, elemento live aggiunto di recente, ma soprattutto il “nuovo” bassista Dave Beste: assieme a lui la batteria è scandita alla perfezione e tutto procede in modo naturale e fluido. Arriva il momento di “Good Things”, ballad avvolgente che pare scritta nel boom della black music di Detroit. Qui è la voce a fare da protagonista, e il copione viene recitato alla perfezione: un pezzo molto meno intenso rispetto ai precedenti, ma di difficile interpretazione. Per fortuna, già dal primo pezzo si capiva che Buchanan non avrebbe sbagliato un colpo, e così è stato.

L’atmosfera si fa più desertica con “Manifest Detini, Part I”, un misto tra rock psichedelico e bluegrass che ipnotizza tutti i presenti. Le note di chitarra di Scott Holiday sanno di luce accecante, mentre la batteria e il basso cullano gli spettatori. Performance singolare che ha fatto sorridere tutti gli amanti dello stoner rock, compreso il sottoscritto. Si ritorna a  battere i piedi con “Torture”, vecchia hit che non smette mai di coinvolgere il pubblico, tant’è che la melodia del ritornello riecheggia anche dopo il finale, attraverso gli spettatori che non accennano a distogliere l’attenzione dal palco. Finalmente arriva il momento di “Rick and The Poor”, brano su cui ho fantasticato molto: un misto tra classic rock e swing che fa da tappeto rosso all’ennesima interpretazione magistrale di Buchanan, che sfoggia tutte le sue doti di cantante americano di stirpe. Tutto il pubblico ondeggia e anche qui la melodia rimane ben impressa nella loro mente. Una reazione piuttosto inaspettata, data l’atmosfera malinconica del pezzo. Ormai si è creata un’empatia totale tra palco e platea, che la band non manca di ringraziare.

Si prosegue con “Where I’ve Been”, ballad romantica e molto suggestiva. Spicca su tutti Scott Holiday, che si dimostra un talento anche nella tecnica dello slide. Jay non si risparmia nemmeno un po’ e canta con tutta l’enfasi del caso: risultato largamente soddisfacente, anche se i ritmi sembrano essere calati da troppo tempo. Infatti, pochi istanti dopo, si riprende ad ondeggiare con “Tell Me Something”, ennesima perla di vecchia data che sembra non voler sparire dalla loro setlist. Un’altra lezione di classic rock, che contribuì a renderli un must per ogni fan degli Yardbirds e di Jimmy Page in generale: il pubblico sembra rinato. Senza esitare si attacca con “Get What’s Coming”, canzone che tanti attendevano con trepidazione. Un’altra grande dimostrazione di rock ‘n’ roll, senza troppi fronzoli. L’esecuzione è intensa proprio come richiede il brano, accolto a gran voce dal pubblico sia sull’intro che sul finale. La folla è entusiasta, e nessuno accenna ad allontanarsi dal palco nemmeno un secondo anche dopo i saluti non troppo convinti della band, che ritorna in posizione quasi subito.

Si ricomincia con “Open My Eyes”, capolavoro tratto dall’ultimo album. Brano dalle dinamiche non semplici, ma suonato perfettamente da tutti i presenti: Jay Buchanan sembra l’erede spirituale di Janis Joplin e le caratteristiche seconde voci danno il tocco finale ad un’esecuzione magistrale, che lascia tutti a bocca aperta. Un pezzo atteso da tutti i presenti, che acclamano a gran voce. Improvvisamente l’atmosfera si fa più sottile con “Sacred Tongue”, in cui solo la voce e la chitarra si intrecciano per una buona parte del brano, per poi proseguire con una linea di batteria suonata con le mani: inevitabile l’accostamento con Going to California di Led Zeppelin IV. Il saluto arriva con “Jordan”, ennesima ballad interpretata alla perfezione da tutti i componenti, mentre la voce non accenna a farsi meno intensa. Un pezzo perfetto per concludere nella maniera più affettuosa, anche se sembra esserci un’ultima carta da giocare: le urla del pubblico vengono prontamente interrotte dal riff di “Keep on Swinging”, canzone tratta dal precedente Head Down, divenuto un cavallo di battaglia da subito. Un finale esplosivo in cui si possono racchiudere tutte le influenze dei Rival Sons: un costante ritmo stile Motown, una chitarra rock dai suoni più aperti che mai e una voce che mescola la scuola del rock classico con le radici della musica popolare americana. A seguire, lancio di cimeli e il classico ingorgo all’uscita, più critico del solito, dato il tutto esaurito.

 Una performance ottima: Intensa e precisa, vissuta al massimo per tutta la sua durata sia dal pubblico che dalla band. Finalmente la giusta moneta per ripagare degli artisti di tale levatura. A fronte di un concerto simile, ma soprattutto ad un’affluenza di pubblico finalmente degna della band in questione, ci si aspetta che i Paladini del blues rock di Long Beach tornino nel nostro paese al più presto. La location per questa volta si è rivelata alla portata dell’evento, si spera che gli organizzatori italiani si accorgano e non sottovalutino la crescente notorietà dei Rival Sons, dato che sembra chiaro da diversi anni in tutta europa e non solo.

Tags:articolo,blues,led zeppelin,live,magazzini generali,milano,recensione,rival sons,rock

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