“Rivoluzione” nel mondo del giornalismo, dagli “instant articles” di Facebook alle gigantomachie editoriali per il dominio sull’informazione. Riflessioni e considerazioni.

Creato il 23 maggio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
di Rina Brundu. Sono molte le notizie che si rincorrono in questi giorni a proposito del giornalismo che sarà. Facebook darà grande spazio ai cosiddetti “instant articles” pubblicati dai siti di editori paganti e selezionati (altra fuffa mediatica naturalmente, perché tutti i post dei blogger sono “instant articles”, da sempre), Google combatterà l’epocale battaglia per il dominio sul business informazionale da par suo e i giornalisti ed editori italiani continueranno a radunarsi e a scambiarsi impressioni in questa o quella località cool per dire praticamente nulla e senza trovare ancora il coraggio di raccontare la verità, ovvero che il giornalismo come lo abbiamo sempre conosciuto è morto e che non se ne sente affatto la mancanza.

In un odierno servizio del TG1 a proposito dell’informazione gratuita in Rete che starebbe minacciando il giornalismo (???), un intervistato impegnato in uno dei convegni di cui sopra, ha detto che bisogna far capire al pubblico di lettori che il giornalismo aiuta a fare una differenza, che il giornalismo non è solo dare una notizia ma anche spiegarla. Ecco, quando si ascoltano simili dichiarazioni da parte degli addetti ai lavori si comprende perfettamente perché il giornalismo è morto e pure chi sono i diretti responsabili della sua veloce dipartita.

Se è vero che l’informazione libera in Rete ha messo letteralmente in discussione le vecchie mission editoriali, è pure vero che molto del danno subito è stato cagionato, e continua ad essere cagionato, da tanti dinosauri della professione che dal cartaceo sono sbarcati sul digitale pensando di trovare lo stesso pubblico di lettori anelanti pronti a sottoscrivere qualsiasi boiata scritta e a farlo in silenzio. Un errore madornale che in dati casi – non faccio nomi ma ne ho scritto più volte – ha determinato la ridicolizzazione tra I commenti in calce di date importanti redazioni che una volta esposte agli umori della Rete hanno mostrato tutti i loro limiti: linguistici, di know-how, professionistici as-a-whole, nonché il loro navigare questa dimensione-altra alla stregua dei pesci fuori dall’acqua.

Come ogni sistema indipendente, come ogni universo libero, la Rete necessita di un proprio linguaggio, necessita di riscrivere i canoni comportamentali e di settare i suoi orizzonti d’attesa anche rispetto agli argomenti che prima erano di pertinenza esclusiva del giornalismo, e che per ovvie ragioni non possono essere gli stessi di meccanismi narrativi ed editoriali datati. Da questo punto di vista concordo con un autore inglese di cui adesso non ricordo il nome ma che sostiene che stare in Rete è come leggere un libro e fare un cruciverba allo stesso tempo. Ne deriva che non posso seguire il discorso del giornalista intervistato dal “TG1” il quale riteneva che il giornalismo di qualità che verrà dovrà essere un giornalismo che farà “capire” la notizia: sta forse dicendo che il giornalismo d’antan non lo faceva? Ma, soprattutto, questo signore pensa davvero che un futuro lettore accorto preferirà leggere la sua spiegazione degli esperimenti del CERN piuttosto che cliccare direttamente sul sito di quell’organizzazione?

Il giornalismo è morto e, come sovente ripetuto, bisognerebbe non nominarlo onde non procurare nuovo dolore. Di fatto tutte le sue “datate-competenze” passeranno a una pluralità di players a tutto vantaggio della qualità: la cronaca a siti come YouReport, l’opinionismo ai blogger più capaci, la cultura verrà direttamente esplicitata dai tantissimi artisti che vivono la Rete, le tecnicalità verranno direttamente “spiegate” dagli scienziati che le hanno cogitate e sperimentate e non per interposta persona, etc, etc, etc. Il sito giornalistico, se sopravviverà come credo, perché la Rete è terra democratica, sarà per lo più un centro aggregativo di notizie, fermo restando l’appeal di giornali di grande levatura come il The New York Times che resisterà per molto altro tempo ancora.

Altra cosa sono le guerre editoriali per gestire tutti questi input informazionali che portano pubblicità e quindi denaro e potere. Ho anche ogni ragione di credere che queste guerre saranno per lo più gigantomachie senza esclusioni di colpi tra i colossi che fanno vivere la Rete. Dispiace dirlo ma non mi risulta che ci siano editori italiani importanti che hanno voce in capitolo in queste dinamiche, e pure questo bisognerebbe capirlo.


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