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"Road to nowhere"

Creato il 21 dicembre 2010 da Pickpocket83


 

Il cinema è una “arte” che si può insegnare? Monte Hellman crede di sì, almeno per quanto concerne gli aspetti tecnici del film-making. Werner Herzog nei suoi seminari itineranti della “Rogue Scholl” sosterrà che per fare cinema bisogna imparare a falsificare documenti e vi insegnerà a scassinare automobili, ma quella di Monte Hellman è un’altra storia. Hellman, cresciuto a bottega da Roger Corman, è stato regista e sceneggiatore di pellicole low-budget di culto assoluto (“Strada a doppia corsia”, il dittico nicholsoniano “La sparatoria”/”Le colline blu”, “Cockfighter”, “Amore, piombo e furore”, “Iguana”), montatore (“Killer Elite” per Sam Peckinpah, “I selvaggi” per Roger Corman), produttore (“Le iene”). Il grande vecchio del cinema indipendente americano, l’uomo a cui si deve la scoperta e la valorizzazione del talento di uno come Quentin Tarantino, da qualche anno insegna regia al California Institute of Arts. Il suo ultimo film, “Road to nowhere”, folgorante ritorno dietro la macchina da presa alla bella età di 78 anni (e dopo un lungo periodo di assenza) presentato in concorso a Venezia, è il saggio perfetto in forma di film che Hellman dirige per (e con) i suoi studenti. Il nowhere del titolo non poteva che essere il cinema stesso: metacinema esponenzialmente moltiplicato fino a sovrapporre infinite campiture di senso e di segno (opposto). I dualismi vita/morte, reale/fictionale, persona/personaggio, vero/falso nella complessa architettura di questo film sono tuttavia composti all’interno di un quadro visivo per nulla nebuloso, che per contrasto dipinge con limpida nettezza i contorni di una vicenda dalla trama decisamente complessa. A dominare, ancora una volta, è la staticità quasi glaciale della macchina da presa, supportata dalla splendida fotografia di Josep M. Civit. Siamo lontanissimi dal sovraeccitato onirismo visivo di David Lynch, che pure in “Mulholland drive” aveva descritto una parabola simile, di osmosi tra filmante e filmato e di (con)fusione di livelli narrativi celluloidei. Siamo, semmai, per stessa ammissione di Hellman dalle parti della “Vertigo” hitchcockiana, algido e labirintico gioco di rifrazioni di femmes fatale, lapidi e sequoie fuori fuoco. Con totale e rinnovata, arditissima coerenza rispetto ai canoni di tutto il suo cinema, Hellman ancora una volta ha messo in scena un affascinante road-movie dello spirito, in cui il protagonista (non a caso un giovane regista al suo primo film) si consegna in ostaggio all’oggetto della sua elaborazione artistica. Il cinema, ci ricorda il grande saggio Monte, può essere un’arma molto pericolosa. Soprattutto se siamo disposti a lasciarci sedurre dal suo falso movimento.

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