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Che i partiti italiani siano convinti (al loro interno in maniera profonda) della necessità di rendere normale e ufficiale il sardo non saprei dire. I segnali sono estremamente contraddittori. Il governo sardo di centro destra ha dichiarato la lingua motore dello sviluppo, ma poi non di mettere carburante in questo motore, ma alla prima occasione di tagli richiesti cerca di ridurre alla metà i suoi finanziamenti per la lingua che già prima, ed ecco il paradosso, erano minori di quelli stanziati dallo Stato per lo stesso scopo.
Il senatore Francesco Sanna, del Pd, ci ha informato che i suoi parlamentari hanno tentato, con l'opposizione del Pdl e della Lega, di introdurre l'obbligo per la Rai di fare trasmissioni in sardo nell'Isola e di rispettare, quindi, il dettato della Legge 482 di tutela delle lingue delle minoranze storiche (nazionali, le chiama l'Unione europea). Il partito del senatore Sanna, però, nel programma della sua festa in corso a Cagliari, in nessuno dei dieci giorni prevede qualcosa che si assomigli ad interesse per la lingua sarda.
Dispiace questa insensibilità dei grandi schieramenti italiani, ma è nell'ordine delle cose ed, anzi, è grasso che cola qualsiasi loro apertura alla questione. Nessuno di questi schieramenti ha, se non per loro parti (Psd'az soprattutto), progetti di indipendenza della Sardegna, declinando semmai forme più o meno avanzate di sovranità. Il dramma (che, come dirò, potrebbe preludere alla tragedia) è nella politica dei movimenti che puntano dichiaratamente all'indipendenza. Della bizzarra idea di iRS sulla superfluità della lingua in vista della conquista dello Stato sardo, si è detto molto, pur se non abbastanza. Vale la pena seguire, con partecipazione, gli sforzi che tanti militanti di iRS conducono per convincere i loro dirigenti che la menano con l'Irlanda come esempio di stato fattosi indipendente con l'uso dell'inglese.
Ma guardate la foto del manifesto che convoca una marcia per il “Indipendance day”, cercatevi una parola in sardo e immaginate se un errore del genere possa esser fatto, che so?, in Galizia, in Catalogna o nei Paesi baschi. Quel “Indipendance day” ha il sapore di un conformistica replica dei tanti “Vaff day”, “Aliga day”, “No Berlusconi day”. Un bel “Die de s'indipendèntzia” (leggibile e comprensibile anche da chi non conoscenze il sardo) non avrebbe dato forse l'idea, senza prenderla in prestito necessariamente dalla cultura politica italiana? Ma anche le due parole inglesi, se proprio non se ne può fare a meno, avrebbero potuto essere usate in un contesto sardo o bilingue. Avrebbe dato la sensazione che la lingua sarda è almeno uno degli elementi del progetto che sta dietro la marcia. E invece no.
È invalsa, in questo mondo che sentivo vicino, come credo lo sentisse l'amico Bolognesi, la folle idea che è ben riassunta in commenti (su Facebook) alla questione sollevata da Roberto Bolognesi. La riassumo: gli irlandesi hanno conquistato l'indipendenza parlando in inglese e una volta costruito il loro stato hanno reintrodotto il gaelico. Questa constatazione è presa come modello per la Sardegna dove il sardo è, per fortuna, lingua viva e vitale e presuppone la decisione di lasciar morire la lingua, o comunque non aiutarla a vivere, per poi fare l'operazione di scavo archeologico compiuta in Euskadi e in Corsica. Si può essere più incoscienti? Ho scelto Euskadi e Corsica perché sono significativi del percorso che si immagina per la Sardegna.
Lì – ed ecco la tragedia di cui parlavo – la riconquista dell'euskera e del corsu è avvenuta e sta avvenendo a costo di devastanti terrorismo e lotta armata. Nelle due nazionalità europee ci fu un insieme di politica attiva di genocidio culturale e di correità della maggioranza dei due popoli, affascinata dall'idea di sentirsi spagnoli o francesi. Quando si sono resi conto di aver perso il segno distintivo della loro identità era troppo tardi ed élite, per di più intellettuali, si riproposero di riconquistare la lingua perduta. Alcune con azioni culturali, altre con azioni armate.
Che senso ha, per pura poltronite, disinteressarsi della lingua nazionale e/o rassegnarsi al suo declino, sognando un suo faticoso recupero dopo che sarà spuntato il sole dell'indipendenza?
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