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Roberto Calvi: 32 anni fa l’impiccagione sotto il ponte dei Frati Neri di Londra. Un delitto ancora senza responsabili

Creato il 17 giugno 2014 da Antonellabeccaria

Il caso CalviQuesto testo è uscito nel giugno 2012 come postfazione al libro a fumetti Il caso Calvi (BeccoGiallo), sceneggiato da Luca Amerio e Luca Baino e illustrato da Matteo Valdameri. È la ricostruzione degli ultimi giorni e delle possibili ragioni della morte del banchiere Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano ritrovato nelle ore del mattino del 18 gugno 1982 senza vita sotto un ponte londinese. Non un suicidio, come si cercò di accreditare quella morte, ma un delitto rimasto impunito. Gli anni, nel frattempo, sono diventati 32 mentre i nodi irrisolti sono rimasti sostanzialmente gli stessi.

Trent’anni. Tanti ne sono trascorsi da quel 18 giugno 1982 quando venne ritrovato un corpo issato sotto il ponte dei Frati Neri di Londra. Il cappio, una corda in fibra sintetica di colore arancione, diventò sbrigativo sinonimo di suicidio, suffragato nel giro di pochi giorni dal verdetto del coroner britannico. Ma oggi l’unica certezza è che si sbagliavano i giurati che, in cinque su sette, votarono per una morte provocata da un’impiccagione antoinferta.

Del resto non fu solo la famiglia Calvi a non credere fin da subito a quella provvidenziale (e spacciata come volontaria) uscita di scena. Il presidente del Banco Ambrosiano non era infatti un banchiere qualunque. Era così poco qualunque che a Londra, così come in qualsiasi altro Paese che non fosse l’Italia, non avrebbe dovuto trovarsi. Poco tempo prima, infatti, era stato condannato in primo grado a quattro anni di reclusione e a una multa da quindici milioni di lire per reati valutari e di lì a poco sarebbe iniziato l’appello. Un processo nel corso del quale, si temeva da più parti, Roberto Calvi avrebbe potuto raccontare inconfessabili retroscena della finanzia cattolica e laica, intrecciata al finanziamento di operazioni criminali per una classe politica fin troppo impastoiata con corruzione, coltivazione di posizioni personali e piduismo, utile camera di compensazione per interessi tanto eterogenei quanto convergenti.
Ignorando l’unica misura che limitava la sua libertà personale, il divieto di espatrio, il banchiere milanese si mise in tasca un passaporto falso intestato al quasi omonimo Roberto Calvini. Un elemento, questo, che non fu sufficiente a ritardare più di tanto l’identificazione del cadavere. Ma ciò che Calvi facesse a Londra, a oggi, non è ancora del tutto chiaro, per quanto la ricerca ormai spasmodica e disperata di un appoggio in extremis rimane una delle ipotesi plausibili.

Nell’ultimo scorcio della sua vita, Roberto Calvi si attendeva il sostegno di tutti coloro che si erano avvalsi dei suoi servigi. E scrisse a un politico italiano rimasto senza nome: “Molti furono i travagli, le estorsioni, le minacce, i ricatti, le umiliazioni che io e la mia famiglia abbiamo subito e continuiamo a subire [...]. In questo disgraziato Paese nel quale la politica si mescola alla criminalità, siamo costretti ogni giorno ad assistere alla più vergognosa corruzione di tutti i centri di potere; anche la persona più onesta, se non vuole essere travolta, deve cedere alle estorsioni da parte delle mafie di ogni colore”.

E a proposito della sua situazione, aggiungeva Calvi: “Molte delle cause che hanno determinato la tragica fine dell’impero di [Michele] Sindona sono le stesse che oggi potrebbero provocare il mio crollo. Come per Sindona, anche per me agiscono le stesse persone avide di denaro: ora amiche, se paghi; ora nemiche se non paghi. [A fronte di tutto questo, chiedo] che mi siano restituite tutte le somme da me devolute per i progetti riguardanti l’espansione politica ed economica della Chiesa; che mi siano restituiti quindi i mille milioni di dollari che, per espressa volontà del Vaticano ho devoluto in favore di Solidarność; che mi siano restituite le somme che ho impegnato per organizzare centri finanziari e di potere politico in cinque Paesi dell’America del Sud, somme che ammontano a oltre 175 milioni di dollari; che mi sia riconosciuto in termini economici ancora da quantificare l’efficace opera da me svolta in favore di molti Paesi dell’Est e dell’America Latina; che mi sia restituita la serenità… Che sia lasciato in pace”.

In pace non fu lasciato perché fu assassinato. E l’innominabile flusso di denaro che Roberto Calvi aveva indirizzato in ogni angolo del mondo è un movente più valido per ammazzarlo. Anzi, in sé, quel flusso riassume una ridda di moventi che possono provenire dagli ambienti più disparati, ma alleati – quando non massonicamente affratellati – tra loro.

Nato a Milano nel 1920, a partire dal 1947 il banchiere aveva trascorso la sua vita a salire una scala all’interno del Banco Ambrosiano che lasciava intravedere la vetta con l’arrivo degli anni Settanta. Il 15 ottobre 1975, infatti, Calvi era divenuto presidente dell’istituto di credito al quale aveva dedicato la sua esistenza. E aveva accumulato una serie di cariche che gli dovevano aver dato l’idea di essere quasi inscalfibile.

Tra queste anche la presidenza della Centrale Finanziaria e del Banco Ambrosiano Overseas Limited di Nassau, Bahamas, la seconda carica per importanza all’interno dell’Istituto Centrale di Banche e Banchieri dopo che già in precedenza aveva fatto parte del consiglio direttivo, oltre a far parte del comitato esecutivo del Credito Varesino. Ma tre anni più tardi la nomina a presidente, forse rivedendo la parabola che aveva portato al collasso dell’impero finanziario di Michele Sindona, erano arrivati gli ispettori della Banca d’Italia e il semestre successivo più di un dirigente dormì sonni poco tranquilli mentre si passavano in rassegna bilanci, si seguivano le ambigue tracce di operazioni estero su estero e si cercava di mettere insieme un’impallidente costellazione di società off shore.

Ancora prima della condanna in sede penale, era giunto il giudizio di Palazzo Kock: reati valutari. A questo ne erano seguiti un’inchiesta della magistratura e il primo ritiro del passaporto, ma a chi guardava da fuori quel poco che si riusciva a vedere dentro il Banco Ambrosiano tutto questo doveva essere sembrato un incidente di percorso quasi scontato per un banchiere che si era posto l’obiettivo di rivoluzionare la finanza. Così ecco la richiesta di aumentare il capitale dell’istituto di cinquanta milioni con il beneplacito del ministero del Tesoro e di Bankitalia.

Nel frattempo c’era stato il coronamento di un’impresa che aveva dello straordinario: l’inghiottimento del Corriere della Sera con l’apparente scopo di supportare la famiglia Rizzoli, che ne era la proprietaria sempre più di facciata. L’esca risaliva al 1974, quando erano state acquistate quote dalla famiglia Moratti, e la lenza aveva avvicinato il quotidiano di via Solferino fino al 1977, anno in cui la Fiat liquidò l’ultimo terzo che deteneva ancora.

Solo il Banco Ambrosiano, sotto il lume della P2 di Licio Gelli e del suoi sodali Umberto Ortolani e Bruno Tassan Din, sostenne questa operazione mentre tutti gli altri istituto avevano detto picche. L’apice lo si toccò nel 1981, con l’acquisto da parte della Centrale Finanziaria del 40 per cento del gruppo. A quel punto 140 milioni di lire, invece di “perfezionare” l’operazione, finirono in Liberia per poi passare altrove assolvendo a scopi diversi da quelli dichiarati.

Laddove il mondo della finanza stava officiando un lunghissimo funerale professionale divenuto inevitabile nel corso del decennio precedente, quello di Sindona, a metà anni Settanta un posto di capitano di ventura si era liberato e quel posto era stato occupato da Roberto Calvi. Il quale proseguì con l’asse creato con lo Ior e con il suo dominus, monsignor Paul Marcinkus, un gigante in tonaca d’origine lituana che veniva da Cicero, Chigaco, e cresciuto in un ambiente dove la mafia italo-americana aveva insegnato non poco a chi frequentava quel quartiere.

Il Banco Ambrosiano, in una configurazione che comprendeva P2 e finanze vaticane, nel corso di quegli anni fu al centro di un universo che doveva rimanere sommerso: corruzione, speculazioni immobiliari, escamotage tributari, riciclaggio e su tutto l’anticomunismo. Il quale fu radicalizzato come una religione: in suo nome, qualsiasi azione poteva essere giustificata, dai traffici più loschi agli spalloni in giro a sostenere Solidarność in Polonia o i fronti antirivoluzionari in America Latina.

Quando gli scricchiolii della “creatura” di Calvi si trasformarono in evidenti crepe, aggravate dallo scandalo della scoperta delle liste della P2 il 17 marzo 1981 con la conseguente emersione di una rete vasta e inquietante, lo spettro della bancarotta e di una nuova detenzione per Calvi divenne un incubo a cui sfuggire con ogni mezzo. Tirò forse un parziale sospiro solo poco più di un mese prima di morire, il 5 maggio 1982, quando la Banca d’Italia diede il suo benestare alla quotazione del Banco. Accadde una settimana dopo il fallito attentato al vice di Calvi, Roberto Rosone, nel corso del quale rimase ucciso un mammasantissima della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati. Ma più dello spettro della criminalità organizzata, il crollo fu probabilmente ancora più concreto con la sospensione di quell’operazione, il 17 giugno, vigilia della morte di Roberto Calvi.

In quelle ore a morire fu anche Graziella Corrocher, l’affidabilissima segretaria del presidente del Banco. Ufficialmente si suicidò lanciandosi dal quarto piano dell’istituto di credito dopo aver scritto invettive non firmate contro il suo capo, ritenuto il responsabile della disfatta, e questo sarebbe stato solo uno dei tanti decessi che hanno incrociato quello di Calvi. Si profilava così quello che il 18 giugno 1982 Sandro Paternostro, inviato del Tg2 a Londra nonostante lo sciopero dei giornalisti italiani, definì “un giallo veramente degno di un film di Hitchcock”. Un giallo che non ha un colpevole ancora oggi, dopo l’assoluzione definitiva di coloro che vennero accusati di omicidio e che si incontreranno nelle pagine che seguono. È una storia, questa, di delitti, faide tra clan rivali, borse che scompaiono, droga che fluisce copiosa, estremisti usati alla bisogna e sacri tesori costruiti nel più blasfemo dei modi.

Ha detto nella primavera 2012 il collaboratore di giustizia Francesco di Carlo, accusato di aver avuto un ruolo nel delitto Calvi: “I veri killer non verranno mai puniti perché sono protetti dallo Stato italiano e da membri della loggia massonica P2″. Se affermi ciò per conoscenza diretta o per altri motivi non si sa, per quanto il figlio del banchiere assassinato chieda la riapertura delle indagini.

Ciò che invece è certo è che la realtà dei fatti potrebbe non essere così lontana da quella frase. Calvi, in un estremo tentativo di salvare se stesso e la sua banca non disdegnando l’arma del ricatto, scriveva il 30 maggio 1982 al cardinale Pietro Palazzini: “Molti finanziamenti e tangenti concessi dal Banco Ambrosiano a partiti e uomini politici hanno avuto origine su indicazione [di personalità interne alla Santa Sede stessa]. Eppure costoro sanno che io so! Non è quindi possibile spiegare l’atteggiamento che hanno verso di me e il mio gruppo bancario, unicamente in termini di sleale comportamento e di ottusità mentale [...]. In siffatte condizioni cosa posso sperare io, responsabile come sono di aver svolto un’opera di banchiere nell’interesse della politica vaticana in tutta l’America Latina, in Polonia ed in altri Paesi dell’Est?” Il crimine organizzato, sì, ma anche la ricerca della verità dentro i bastioni di Niccolò V. Una verità che fino a oggi si è voluto negare.


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