Magazine Diario personale

Roberto fonseca

Da Astonvilla
ROBERTO FONSECARoberto Fonseca, pianista cubano pupillo di grandi personalità come Ibrahim Ferrer, Rubén González, Cachaíto López, ha da poco compiuto trentatré anni. Ma la sua carriera è già costellata di grandi soddisfazioni, di successo e riconoscimenti. Il suo tour dell’estate 2008, che ha toccato tutta l’Europa e il Medio Oriente, ha ricevuto elogi pressoché unanimi. La sua musica è un turbine di vitalità e freschezza, di straripante eclettismo. Rappresenta la continuità con quei grandi cubani che gli sono stati maestri, ma nel contempo guarda in altre direzioni: nella sua onnivora, virtuosa voracità riesce a trovare nuovi rapporti tra ritmo e melodia, tra semplicità e complessità, tra profondità e spontaneità. Proprio la capacità di operare una sintesi dinamica tra ingredienti diversi, tra polarità opposte, è quanto più caratterizza e rende nobile il suo lavoro.
Quali sono stati, Roberto, i tuoi primi approcci con la musica?Tutta la mia famiglia ha rappresentato un ambiente stimolante, che mi ha spinto a conoscere la musica e ad apprezzarne diversi generi. L’ascolto è stato favorito in primo luogo da mia madre, cantante, pianista e ballerina, che mi ha fatto sentire delle splendide melodie, dei bolero che mi hanno toccato il cuore. Così ho cominciato a capire che il mio futuro era segnato dal desiderio di creare belle melodie. Poi i miei fratelli Jesus ed Emilio, più grandi di me, mi hanno fatto ascoltare altri stili musicali, come il funky, il pop, il jazz. Mio padre mi ha fatto conoscere la musica religiosa afrocubana.
Quando hai iniziato a suonare uno strumento?Il primo incontro fisico con la musica è stato con la batteria, con la quale ho iniziato a quattro anni. A dieci suonavo con un gruppo che interpretava la musica dei Beatles. Ma nel frattempo, a otto, avevo iniziato a studiare la musica classica e il pianoforte. Questo è stato il primo momento davvero importante della mia formazione di musicista. Ma il passo fondamentale è venuto quando ho iniziato a capire il meccanismo dell’improvvisazione, a provare l’ebbrezza legata alla libertà di dire qualcosa di mio, di personale. A scuola il nostro punto di riferimento era il jazz statunitense, ma io avevo nell’animo la musica afrocubana. Così sentivo in modo molto chiaro che la mia musica sarebbe stata un incontro tra questi due mondi. Successivamente, per approfondire le mie conoscenze, mi sono diplomato in composizione all’Instituto Superior de Arte dell’Avana. Il contatto con i grandi musicisti cubani, come Ibrahim Ferrer, Rubén Gonzáles, Omara Portuondo, Cachaíto López, mi ha spronato in questa mia scelta.
Quali sono stati i tuoi modelli nel campo del jazz?Il primo è stato il Keith Jarrett dello Standards Trio: mi ha insegnato il lavoro sulla melodia, l’importanza di scavare dentro le pieghe di un brano. Poi mi hanno attratto Stevie Wonder e le cose funky di Herbie Hancock. L’influenza ritmica viene in uguale misura da Hancock e dalle mie radici cubane, dal ritmo che impregna tutta la vita a Cuba.
Nel tuo sito internet citi molti altri musicisti. Quali altri senti come tuoi maestri?È difficile dirlo, perché ognuno di loro ha caratteristiche diverse. Ascolto tutti con grande interesse. Anche se Hancock e Jarrett restano i miei punti di riferimento principali, nel mio modo di suonare, nel mio stile c’è pure il pianista cubano Lili Martinez, che adoro. E c’è anche mio fratello Jesus, lui pure pianista. Mi interessano molto alcuni aspetti vicini al modo cubano di concepire il ritmo. Un ritmo legato alla spiritualità, alla religione.
Dai grandi cubani, come Ibrahim Ferrer e Rubén González cosa hai imparato?Mi hanno insegnato l’importanza della semplicità nella musica. La semplicità che va diretta al cuore. Una cosa non facile da raggiungere, che può venire solo con la maturità, ma che deve sempre essere presente come obiettivo. Suonare con Ibrahim Ferrer è stata un’esperienza fondamentale. Era una persona molto gentile, molto semplice, trasparente, e portava questo carattere nella sua musica. Raggiungeva la gente in modo diretto. Per me è sempre stato un modello importante, volevo riuscire a fare con il pianoforte quello che lui faceva con l’interpretazione vocale. Arrivare diritto al cuore. Suonare con lui, lavorare con lui, anche nel suo ultimo album, è stata un’esperienza indimenticabile. Anche l’ascolto di Rubén González mi ha insegnato molto. Quando divenni il suo pianista di supporto nell’Orquesta di Ferrer, lo ascoltavo estasiato per ore. Per me era come la realizzazione di un sogno.
Da Ferrer hai imparato anche un metodo di lavoro?La tranquillità, la freschezza e la semplicità con cui affrontava qualsiasi situazione. Per lui era importante l’energia positiva. Cantava e spiegava la sua musica con una chiarezza esemplare, che mi coinvolgeva profondamente.
Vuoi approfondire un poco gli aspetti della musica cubana che senti più vicini?Un elemento fondamentale della nostra musica è l’aspetto religioso, in particolare quello legato alla ritualità della santeria, la religione cubana nata dal sincretismo tra yoruba della Nigeria e mondo occidentale. Tutti i ritmi della religiosità afrocubana mi influenzano molto. Poi sento molto vicino a me il lirismo della guajira. Ma soprattutto il bolero, che a Cuba si ascolta in moltissimi locali. Il suo ritmo e il suo carattere sono diversi da quelli del bolero spagnolo: a Cuba ha ricevuto un influsso dall’Africa e dal son, divenendo una cosa assolutamente diversa. Per me è stato il più importante, una musica che sento nel mio profondo, intimamente.
Hai scelto di mantenere la tua residenza all’Avana. Perché?La ragione sta anche nelle musiche ricordate sopra. Questa scelta magari mi pesa un po’ quando collaboro con musicisti in altre parti del mondo, perché devo programmare concerti e incontri con molto anticipo. Ma abitare all’Avana è una scelta importante, che riguarda la mia vita, che mi tiene legato a una dimensione più umana, più vicina a quello che sento.
Il tuo legame con la batteria è rimasto evidente. Nella tua musica il dialogo con questo strumento è sempre vivo e pulsante. Quali batteristi nel jazz senti più affini?DeJohnette è un grandissimo. Reagisce alla musica con enorme sensibilità. Mi piacciono Tony Williams, Elvin Jones, Peter Erskine. La batteria come strumento continua a piacermi molto, anche se da ragazzo ho seguito il consiglio di mio padre, cioè passare allo studio del pianoforte. Lui mi diceva che con il pianoforte avrei potuto fare tutto. E non sbagliava.
Il tuo ultimo disco, «Zamazu», è molto eterogeneo. Quale strada imboccherai nel prossimo?Questa varietà è già la mia linea. Quando mi viene un’idea, ne seguono sempre molte altre, che si intrecciano con questa e partono verso nuove direzioni. La musica che nasce da questo processo è originale. Nessun altro musicista a Cuba aveva fatto prima di me queste cose. Nel mondo c’è l’impressione che tutti i pianisti cubani facciano latin jazz, ma non è così. Il latin jazz è un ingrediente, ma io e altri musicisti stiamo cercando di far dialogare la tradizione cubana con altre idee, con altre espressioni.
Come è la vita, oggi a Cuba, per i musicisti?Ci sono molti ottimi musicisti che non trovano lavoro, ma la situazione si sta evolvendo. Le opportunità non mancano. C’è curiosità verso le cose nuove da parte del pubblico.
I tuoi progetti futuri?Una nuova registrazione con il mio gruppo, che guarda di più alle radici africane, sempre con mie composizioni. L’Africa è una fonte inesauribile di ispirazione.
Nel caso di Ferrer e di González hai parlato di semplicità: è difficile per un pianista virtuoso e agile come te essere semplice?Questa è la cosa più difficile per un musicista: dire più cose con meno note. I miei fratelli e mio padre mi hanno spronato fin dall’inizio a seguire questo principio. Poi i grandi musicisti con i quali ho suonato mi hanno aiutato a metterlo in pratica.
(foto di Tomas Miña / cortesia Egea)
Giuseppe Segala

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