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Robinson Crusoe di Daniel Defoe

Creato il 25 febbraio 2014 da Masedomani @ma_se_domani

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Eccoci qui. Una frase mi trema sulla punta della penna da un po’ ed ho come l’impressione che le pagine della Moleskine non la vogliano accogliere, ma è giunto il momento di farsi coraggio e metterla nero su bianco:

“Ci sono libri che hai letto da giovane e non dovresti rileggere da adulto”. Punto.

Siccome lassù in alto avrete già visto la copertina di una delle millemila edizioni di Robinson Crusoe disponibili in libreria, sarete già stati in grado di immaginare che mi stessi riferendo al più noto romanzo di Daniel Defoe.

Un autore certamente intrigante anche da un punto di vista biografico: finto nobile (la particella De davanti all’originale cognome Foe compare magicamente a 43 anni di età…), galeotto per bancarotta, spia governativa all’interno delle redazioni di giornali dell’opposizione, Foe/DeFoe riuscì a risollevare le sue fortune con un romanzo che solleticava gli istinti avventurieri della borghesia inglese ed accendeva la fantasia dei più giovani. Il suo Robinson Crusoe, ispirato alla figura di Alexander Selkirk che aveva vissuto per quattro anni su un’isola sperduta nel Pacifico, ad ovest dell’odierno Cile, lo ha trainato diritto fino alla schiera dei padri fondatori del moderno romanzo, assegnandogli un ruolo di primo piano nel gruppo degli scrittori più imitati di tutti i tempi.

Eppure…

Eppure.

Eppure avrei dovuto fermarmi lì. Ricordare con la nostalgia tipica di chi volge lo sguardo all’infanzia il tempo in cui mi sentivo Robinson, preparavo (con scarso successo) punte di lancia con i sassi del Carso  e cercavo (con una riuscita ancora minore) di accendere un fuoco con due maledetti bastoncini di legno. Il confine da superare era quello, quasi infrangibile, dei giardini di Via Parini – Via Pacinotti, ed ogni escursione che superasse il parcheggio della Posta era una avventura da intraprendere con un po’ di timore e senza il sostegno di Venerdì.

Ecco, appunto. Venerdì.

E’ per quello che non bisognerebbe rileggere alcuni libri da grandi. Perché da giovane Robinson ti pare uno spirito libero, dotato di iniziativa e senso pratico. Appena cresci un po’, ti rendi conto che la prima parola che insegna all’indigeno che diventerà suo compagno di avventura è “padrone”, che lo definisce quasi immediatamente “servo” e che il viaggio che lo condurrà al naufragio non era stato intrapreso con fini esattamente umanitari:

“posseder tutti al pari di me delle piantagioni che non mancavano di nulla fuorchè di schiavi; non potersi tirare avanti la coltivazione degli zuccheri, perchè non era permesso il vendere in pubblico i Neri quando erano menati al Brasile; non aver bisogno d’altro, che di fare un viaggio per acquistare di questi Neri, condurli di soppiatto alla spiaggia, e ripartirli in comune fra le piantagioni degli armatori del divisato vascello”  - traduzione di Gaetano Barbieri (1842)

 Certo, se vi è un errore terrificante nell’analisi letteraria è proprio quello di interpretare un testo senza contestualizzarlo storicamente ed alla luce di occhi moderni. Ma è inevitabile che la figura di Robinson sognata da ragazzino, quella cantata da Vecchioni in:

 “quando un grillo dal camino canta
e non si sa dov’è ma l’eroe sorride ed è con te
quando il vento ha il suono di una voce dentro l’albero
la luna fa sognare
io da grande sarò
come Robinson Robinson Robinson…”

finisca per sbiadire un po’ e arrivi a tramutare lo spirito di avventura in una sorta di opportunistico colonialismo.

P.S.: Inutile sottolineare che Robinson Crusoe compare nella lista del 1001 libri da leggere a tutti i costi

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