Stavo nel chiuso della mia stanza e, alla luce della lampada, cercavo di decifrare quei documenti. L’argomento principale erano le beghe tra i cleri di Sant’Elia e di Santa Speranza. Questioni di precedenza nelle Processioni, questioni per decidere a chi spettasse suonare le campane al Gloria nel Sabato Santo, questioni per stabilire a quali dei due cleri spettasse la matricità, ossia la superiorità, la Patronanza, ecc. Erano divertenti da leggere: dietro quelle diatribe s’erano formate addirittura due fazioni religiose che si davano botte, che di notte giravano armate per sorprendere e malmenare qualche sostenitore della fazione opposta. E ogni processione era quasi inevitabile che si risolvesse in risse con percosse e perfino ferimenti. Cose, appunto, divertenti o disdicevoli, a seconda del punto di vista, ma che davano un tocco di colore ai tempi, anche se ai fini della ricerca storica risultavano del tutto marginali. La baronessa mi aveva raccomandato di esaminarli con cura, ma quanto più analizzavo quei documenti tanto più mi convincevo che in realtà non sarei approdato a nulla. Cominciavo a credere che Clara avesse frainteso il senso della mia ricerca, che non avesse capito che io mi muovevo in uno scenario storico europeo e mediterraneo che nulla aveva da condividere con quelle beghe paesane e con quelle dicerie suggestive che si tramandavano nei secoli. Mi ero lasciato, mi dicevo, forse un po’ suggestionare dalla sua immaginazione. In effetti, per quanto avessi cercato attentamente tra le righe, il solo riferimento che avevo trovatocon il principe Gironimo, e del resto quasi ovvio, era un suo intervento presso le alte cariche ecclesiastiche, col quale le sollecitava a dirimere quelle diatribe incresciose che suscitavano scandalo nel regno. Ed era un intervento comprensibile dopo che addirittura una cerimonia funebre si era conclusa in una vera baraonda, durante la quale, come leggevo, non avendo voluto dare gli ordini necessarii che si fossero aperte le porte della Chiesa di Sant’Elia, s’erano levate le genti armate in quella mattina di Sabato luttuoso, ecc. ecc. Eppoi la causa della disputa era anche abbastanza semplice da capire. Era morto il medico di corte: ora la sua famiglia apparteneva alla chiesa di Santa Speranza, quindi era naturale officiare il suo funerale in questa chiesa; ma lui però, si diceva, apparteneva al principe e il principe faceva capo alla chiesa di Sant’Elia, era allora naturale che come famiglio della detta casa i suoi funerali fossero da celebrare nell’altra chiesa. Il personaggio era importante, e aggiudicarsi il diritto a celebrare il suo funerale significava arrogarsi il diritto a celebrare tutte le messe future in suo suffragio, e ciò per il clero costituiva una vera e propria rendita.
Avevo trascorso gran parte della notte a studiare quelle carte, e la mattina successiva avevo gli occhi gonfi. Cadeva una pioggerellina. Non avevo molta voglia di andare in biblioteca, ma non sapevo nemmeno cosa fare chiuso in quella stanza, inoltre volevo vedere la baronessa e dirle, appunto, che il suo suggerimento non mi era stato utile. Puntuale come sempre era arrivata. Mi si era seduta di fronte e mi domandava bisbigliando (anche se non c’era motivo: a quell’ora del mattino non c’era nessuno, nemmeno il bibliotecario che s’allontanava per il caffè) se fossi stato da Don Vincenzo, e se avessi avuto le carte in prestito. Io rispondevo affermativamente e poi, prima di entrare nel merito della questione che più mi premeva, le riferivo delle persone conosciute e come il suo nome non godesse di grande fortuna e le domandavo la ragione di questa grande ostilità. Ma alla baronessa premeva di parlare d’altro perciò mi domandava se la lettura di quei documenti fosse stata interessante. L’espressione di diniego della mia faccia era abbastanza eloquente, e le parlavo dell’unico riferimento al principe che avevo trovato. Ma lei osservava acidamente che forse il mio acume non si era spinto oltre la lettera. Un po’ per la stanchezza, un po’ per una notte persa dietro inutili indizi, un po’ per quel suo tono di sufficienza, un po’ perché ero indispettito nei suoi confronti perché non mi aveva messo al corrente dei rapporti poco cordiali con il prete, io le stavo dicendo che se aveva qualche elemento davvero utile da suggerirmi poteva darmelo, se, effettivamente, ne aveva l’intenzione, senza nascondersi dietro questi velami misteriosi o questi giochetti enigma... L’ultima parola m’era rimasta sospesa a mezz’aria; con veemenza diceva che lo storico ero io e che quindi toccava a me seguire le piste giuste. Lei si limitava soltanto ad osservarmi. Buongiorno! E quella mattina andava via bruscamente senza neanche prendere in prestito il consueto libro.
Era chiaro!, pensavo, la baronessa aspettava da anni l’arrivo di un intelletto pari al suo da sfidare, e sicuramente, non appena aveva saputo che in paese era arrivato uno storico aveva deciso di stringergli intorno una rete invisibile. Comunque la mia curiosità rimaneva. Come avevo intuito fin dal primo invito a leggere quelle carte, tra le righe c’era da cercare qualcosa che Clara aveva visto, anche se, e non indovinavo il motivo, non aveva intenzione di rivelarmi. Era soltanto, come supponevo, in ragione di una sfida capricciosa? O si trattava d’altro? Fino a quel momento mi consideravo uno storico serio che non amava perdere tempo dietro congetture o letture enigmatiche dettate da una mente eccentrica. E poi senza documenti la storia non si scrive! Avevo alzato gli occhi verso il ritratto del principe Gironimo: le sue labbra sottili racchiudevano un sorriso beffardo, lo sguardo penetrante era cupo e lasciava traspariva il suo carattere intollerante, testardo, pedante, ma allo stesso tempo tormentato da un’angoscia segreta. Era come se al pittore non interessasse tanto cogliere l’atto e il momento in cui il personaggio si qualifica, e dice io sono il principe e il centro di questo regno; ma i motivi di quel tormento, le cause intime e profonde. Ma era un’impressione fugace, perché subito mi dicevo: ecco, comincio anch’io a lasciarmi suggestionare. Infatti, quel ritratto lo avevo osservato varie volte, ma non mi era mai apparso in quella luce: perché avevo cominciato a sospettare che il suo animo fosse stato consumato da qualcosa di tormentoso? Perché i suoi sudditi avevano costruito quelle leggende sulla sua morte? Mi ero concentrato su quello sguardo e la mente riandava alla tragedia che lo aveva colpito nella notte del 16 marzo 1596: il corpo straziato della figlia, il duca Alfonso, suo genero, che giaceva inerme accanto alla sua vittima, cosparso di sangue. Quella notte in un raptus omicida aveva infierito con un pugnale sulla povera donna colpita in sonno. Il breve processo e la condanna del duca: il resoconto sull’accaduto era agghiacciante. Erano mesi che il duca era affetto da una sindrome di pazzia. I sintomi si erano manifestati un po’ prima del matrimonio, ma erano ancora lievi e non lasciavano presagire un decorso così drammatico. Ecco, mi dicevo, forse era questo il tormento che arrovellava il principe: aver dato sua figlia in sposa a un demente che in una notte di follia ne aveva fatto scempio. E chissà, forse questa era la colpa che i suoi sudditi gli addossavano. Forse lo ritenevano responsabile di quel matrimonio, del fatto che non aveva preso sufficienti informazioni sul conto del duca, che aveva deciso troppa in fretta. E sino alla fine dei suoi giorni, il principe si portò dietro questo rimorso. In una lettera, consultata molti anni addietro, avevo letto la scena commovente del perdono tra l’offeso e il condannato: il duca stringeva tra le mani ancor sanguinolenti le regali vesti del principe, e in lacrime chiedeva perdono per il suo atto scellerato; il principe, benigno et magnanimo, accoglieva tra le braccia il suo corpo inerme, e stringendoselo al petto, gli diceva: «Figliolo, che possa Iddio perdonare la tua colpa».
Non era, come mi sarei aspettato, adirata con me. Anzi, cercava persino di scusarsi per il modo brusco con il quale la mattina si era congedata. Confesso, ancora una volta, che quel suo atteggiamento continuava a sconcertarmi. Mi aveva ricevuto di nuovo nel suo salone, questa volta però non era stata Pasqualina ad aprirmi, ma lei stessa. Forse era soddisfatta del fatto che fossi costretto a rivolgermi di nuovo a lei o del fatto che avessi scoperto il legame tra le due date. Io ero lì a chiederle se c’era qualche nesso tra le date. Ma lei domandava a sua volta se a me aveva suggerito qualcosa. Capivo allora che voleva eludere la mia domanda. «Secondo me, rispondevo, effettivamente un nesso potrebbe esserci, ma mi interessava soprattutto conoscere la sua opinione». Clara diceva di essere d’accordo con me, si trattava però di scoprire dov’era il nesso. Mi sembrava di giocare con lei una partita a scacchi, nella quale ogni mossa veniva calcolata con molta attenzione. Su questo versante mi sembrava inutile insistere. Per studiare la sua reazione le annunciavo che quella sera stessa avrei riportato i documenti a Don Vincenzo. Notavo se qualche sua espressione tradisse disappunto o emozione. I tratti della sua faccia rimanevano inerti. Ad un tratto s’era alzata e mi domandava se conoscevo Le vite del Vasari. «Vasari?». Ero frastornato. Dopo l’attimo di esitazione e di smarrimento, le confermavo la mia conoscenza del Vasari. Ma non comprendevo la ragione della domanda. Lei si era diretta verso la libreria e aveva tirato fuori due volumi rilegati in oro e leggeva: Vite de’ più eccellenti architettori pittori e scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri di Giorgio Vasari: «Lei sapeva che il duca Alfonso si dilettava nelle acqueforti?». La baronessa mi sorprendeva: si trattava di una notizia riportata soltanto da pochi eruditi. Questo mi induceva a dire che lei conosceva l’argomento più di quanto avessi immaginato. Avevo accentuato le mie ultime parole, ma la baronessa aveva preferito glissare. Era tornata a sedere di fronte a me e aveva cominciato a ricordarmi che anche il Parmigianino era un acquafortista. Poi mi invitava ad ascoltare le parole del Vasari: “Perché stillandosi il cervello, non con pensare belle invenzioni, né con i pennelli o mestiche, perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legne, boccie di vetro, ad altri simili bazzicature”. In altri termini, mi diceva, Vasari, equivocando su questa passione del pittore, accreditava la notizia che definiva il Parmigianino “peritissimo alchimista”. Aveva appoggiato il libro e attendeva da me qualche commento. Purtroppo a me quella citazione non suggeriva niente. L’unico pensiero a sfiorarmi la mente era che ancora una volta la baronessa aveva abilmente svincolato dall’argomento che più mi premeva. Comunque, se era sua intenzione impressionarmi sulla conoscenza dei fatti di cui da tempo mi occupavo, c’era riuscita in pieno. La baronessa, anche se ignoravo del tutto per quale via, conosceva molte più cose di quanto all’inizio avesse voluto farmi credere, per cui mi conveniva stare al gioco e assecondarla nei suoi rebus. Io continuavo a tacere e aspettavo da Clara qualche chiarimento. Aveva cominciato a dirmi che, dopo aver letto queste parole del Vasari, per essere sicura dell’idea che le era balenata per la mente, si era documentata meglio sulla vita del Parmigianino. Le sue ricerche avevano confermato quanto intuito. Per farla breve, mi diceva, il principe aveva scoperto che il duca si dilettava ad eseguire delle acqueforti, il cui processo consisteva nell’uso di acido nitrico, alcool e di percloruro di ferro, cioè nell’uso di sostanze chimiche. A quei tempi non si era ancora in grado di controllare pienamente quei processi chimici, perciò non era difficile manipolarli. Continuavo ancora a non capire dove volesse andare a parare e il perché continuasse a tirare in ballo il Vasari, il Parmigianino, l’alchimia e le manipolazioni. Poi avevo cominciato a dirle che non avrebbe finito mai di stupirmi e ad illustrare il mio pensiero circa il suo ideale di vita contemplativa. Lei mi faceva notare come in realtà ciò ch’io non gradivo era che qualcuno coltivasse passioni disinteressate. Forse, questo modo di giudicare le cose mi avvicinava ai suoi compaesani più di quanto potessi credere. Non coltivavano anch’essi la loro filosofia dell’utile seppur per ragioni meno nobili delle mie? Forse, era così. Nel mio intimo sono sempre stato persuaso che la conoscenza per la conoscenza sia di per sé negativa. La cultura per me è qualcosa di fondamentalmente sociale, che amarla per se stessa non ha senso. La baronessa mi guardava con aria perplessa e aspettava da me un ulteriore chiarimento. Io sono persuaso che la cultura se non è condivisa perde d’ogni valore. Valutavo l’atteggiamento della baronessa come l’eccesso opposto a quello di Don Vincenzo: se l’ideale del prete era vuoto, l’altro mi appariva sterile. Ma lei mi domandava se la mia passione per la storia venisse prima o dopo gli altri. Io rispondevo che nasceva insieme agli altri. D’altronde, le dicevo senza nessuna intenzione di offenderla, lei poteva permettersi di coltivare la sua passione perché non aveva l’assillo di procurarsi da vivere. Alla mia osservazione le labbra della baronessa si erano serrate in una lieve smorfia. Sebbene non avessi nessuna intenzione di giudicarla non era stato certo leale da parte mia ricorrere a questo argomento. La baronessa aveva capito perfettamente qual era la mia intenzione. Ma si era adombrata perché avevo fatto ricorso ad un argomento fuorviante. Il mio compito era dimostrarle in modo evidente la superiorità del mio punto di vista. A un certo punto aveva cominciato a ricordarmi i due famosi aneddoti che si raccontano intorno al filosofo Talete: quello della servetta e del frantoio. Secondo uno storico della filosofia questi aneddoti non si conciliano tra loro, perché nel primo Talete è presentato come un uomo distratto, mentre nel secondo appare come un uomo accorto e dotato di ottime virtù commerciali. In realtà, sosteneva la baronessa, gli aneddoti erano perfettamente coerenti tra loro. Credevo che volessi farmi intendere che l’uomo contemplativo per quanto possa apparire distratto se vuole è anche capace di concretizzare le sue speculazioni più di quanto comunemente si creda. Ma non si trattava tanto di questo. Gli episodi dimostravano, secondo la baronessa, che talvolta alla soluzione di un problema difficile sia capace di arrivarci prima chi all’apparenza si dimostra meno interessato. Chi si lascia avviluppare dal problema difficilmente riuscirà a trovare la strada che lo condurrà alla giusta soluzione. Ero uscito da quella casa un po’ frastornato. Altri personaggi, altri aspiranti poeti, altri artisti minori avevano espresso le loro teorie. Nel congedarmi dalla baronessa, nella mente non risuonavano le sue parole: Vasari, Parmigianino, alchimia, mestiche, ecc. Continuavo a chiedermi cosa avesse tutto ciò in comune con la mia ricerca.