Le violenze scoppiate in Birmania contro i Rohingya spingono gli appartenenti a quest’etnia musulmana a fuggire verso paesi che li respingono in mare, nell’indifferenza della comunità internazionale.
L’esodo del popolo Rohingya si è intensificato a causa dei recenti episodi di violenza scatenati ai loro danni dall’estremismo buddista in Birmania. Prima della stretta sul traffico di esseri umani inaugurata dalla Thailandia, terra di passaggio obbligato verso Indonesia e Malesia, le rotte degli schiavisti indocinesi erano prevalentemente terrestri e si avvalevano dell’omertà (quando non della collaborazione) della popolazione locale. Dopo il giro di vite del governo di Bangkok, i responsabili si sono reinventati scafisti per perpetuare il traffico verso sud sfruttando le vie marittime. Il ritrovamento di centinaia di fosse comuni presso campi illegali al confine tra Thailandia e Malesia mostra la portata e la brutalità del fenomeno e solleva domande sulla connivenza tra i governi locali e le mafie che lucrano sui migranti.
Rohingya e Myanmar, un rapporto difficile
Il popolo fantasma. Il popolo meno voluto del mondo. Il popolo più perseguitato del mondo. Sono diversi gli appellativi che sono stati associati nel tempo ai Rohingya, dopo secoli di persecuzioni a cavallo tra Birmania e Bangladesh. Appartenenti ad un’etnia araba di fede musulmana dall’origine incerta (oggetto di dibattito tra gli storici), sono tornati al centro delle cronache internazionali perché protagonisti di un esodo senza precedenti causato dal deteriorarsi delle relazioni tra la loro minoranza (due milioni di persone per lo più concentrate nello stato birmano di Rakhine) e i buddhisti birmani integralisti. Diversi episodi nella storia hanno spinto queste genti a fuggire da quella che considerano la loro terra, generando imponenti ondate migratorie dirette verso altri paesi della regione: il vicino Bangladesh è la meta privilegiata, ma alcuni si spingono anche in Thailandia e, attraverso di essa, verso i ricchi arcipelaghi del sud, a maggioranza musulmana, come Indonesia e Malesia.
Le restrizioni applicate su di loro dal governo della Birmania (detta anche Myanmar) hanno reso la loro condizione sempre più insostenibile: dalla
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ghettizzazione in fatiscenti campi profughi sulle sponde dell’Oceano Indiano alle restrizioni sui loro movimenti, dalla revoca della cittadinanza birmana (che li rende apolidi) alla firma di un impegno scritto a non avere più di due figli. La convivenza di questa minoranza con la maggioranza buddista del paese è precaria, e la polveriera può esplodere al minimo incidente tra le due comunità: lo stupro di una ragazza buddista avvenuto il 28 maggio 2012, di cui furono incolpati tre ragazzi Rohingya, fece scoppiare violenti scontri che costrinsero il governo a dichiarare lo stato di emergenza e lasciarono sul campo almeno 29 morti.
Gli stessi monaci buddhisti si sono resi protagonisti di azioni volente contro i musulmani della regione, fomentati dall’intolleranza di chi, come il monaco ultranazionalista Ashin Wirathu, non ha mai risparmiato attacchi alla comunità Rohingya, accusando i suoi membri di «riprodursi come conigli con l’obiettivo di annientarci nel giro di qualche decennio» ed incoraggiando i propri seguaci a bruciare le loro baracche. La giunta militare al potere, del resto, viaggia sulla stessa lunghezza d’onda: un alto diplomatico li ha definirli «brutti come orchi» e «un popolo che non ha nulla a che fare con il Myanmar». Tutto questo ha contribuito ad innescare l’ennesima ondata migratoria verso sud, attraverso una rotta terrestre e un’altra marittima.
La via thailandese: tra campi di prigionia e fosse comuni
Un tempo la via privilegiata dai trafficanti per introdurre i Rohingya in Malesia era quella terrestre, che prevedeva il passaggio attraverso la Thailandia. Il corrispondente di BBC News Jonathan Head ha realizzato un reportage sul posto riportando le condizioni di detenzione delle vittime del contrabbando di esseri umani e ha condotto un’approfondita indagine sui metodi di gestione della rotta thailandese da parte della malavita locale prima che la stretta del governo di Bangkok spingesse i trafficanti a trovare strade alternative.
Il lavoro di Jonathan Head solleva molti dubbi sull’operato delle forze di polizia che dovrebbero contrastare il fenomeno, e insinua il dubbio che polizia ed esercito, o loro esponenti, siano talvolta coinvolti in prima persona o conniventi con i contrabbandieri di uomini in cambio di denaro. Non si spiegherebbe altrimenti la presenza di un campo nella zona miltarizzata al confine tra Thailanda e Malesia. Questi centri di detenzione vengono sfruttati per far sostare centinaia di migranti, malnutriti e fatti oggetto di ogni tipo di violenza, in attesa del pagamento del riscatto da parte delle famiglie. Alla gestione di questi campi collaborerebbero gli stessi abitanti locali, pagati per controllare che i prigionieri non tentino la fuga. Le precarie condizioni di detenzione, le violenze, la malnutrizione e le malattie sono causa di decine di decessi occultati dai trafficanti seppellendo i corpi dei Rohingya in centinaia di fosse comuni: il capo della polizia malese Khalid Abu Bakar ha annunciato di aver trovato solo negli ultimi giorni 139 fosse comuni che si sospetta contengano i corpi dei migranti morti. Una volta liberati nei pressi del confine, i migranti clandestini intraprendono un viaggio a piedi attraverso la foresta per raggiungere la frontiera e tentare di raggiungere la ricca Malesia.
Rohingya alla deriva nell’Oceano Indiano
La seconda rotta, inaugurata negli ultimi tempi per perpetuare il redditizio traffico nonostante i controlli, sfrutta il mare. I migranti, in prevalenza Rohingya, vengono ammassati su barconi direttamente sulla costa birmana e poi lasciati alla deriva nel tratto dell’Oceano Indiano detto Mar delle Andamane. Alcune di queste imbarcazioni non toccheranno mai terra, condannando a morte gli occupanti; altre giungeranno sulle coste settentrionali dell’Indonesia o su quelle della Malesia, ma solo per venire respinte in mare con rifornimenti di acqua e viveri: nessuno vuole farsi carico dell’accoglienza di questi disperati. Una condotta condannata dall’ONU, ma che trova legittimazione nelle analoghe politiche di respingimento adottate da tempo dall’Australia e considerato dal governo di Tony Abbot un successo da esportare.
Nelle ultime ore, tuttavia, i governi di alcuni degli stati dell’area hanno accettato di accogliere i migranti per un anno in attesa di un’altra sistemazione. Tuttavia le organizzazioni di sostegno ai migranti calcolano che ancora migliaia di Rohingya siano ancora in balia delle onde nel Mar delle Andamane.
Il silenzio assordante di Aung San Suu Kyi
Nell’attesa che la situazione di questo popolo giunga ad una soluzione, fa discutere il silenzio del Premio Nobel per la Pace birmano Aung San Suu Kyi, paladina dei diritti degli emarginati che non si è ancora espressa in difesa di questa minoranza oppressa. Alcuni sostengono che non lo faccia per convenienza politica: dopo aver conquistato il ruolo di leader dell’opposizione, schierarsi apertamente con un’etnia spesso accostata all’estremismo islamico pregiudicherebbe la sua probabile elezione al governo o alla presidenza. La vicinanza di alcuni gruppi Rohingya alla galassia jihadista della regione è nota da tempo, ma questo non può giustificare l’indifferenza della comunità internazionale nei confronti dell’odissea di questo popolo.
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