Magazine Asia
Appunti di un'apprendista viaggiatrice
Damasco, occhio d’Oriente. Sconosciuta.
Settemila anni di storia desiderosi di essere svelati e raccontati ad un Occidente
spesso pigro ed inutilmente spaventato.
Al mio arrivo l’aeroporto è deserto, qualche neon illumina stanze spaziose e desolate,
i rulli prendono a girare nell’attesa che zaini e valigie facciano il loro ingresso.
Ad attendermi ho trovato Aisha, la mia guida per i primi giorni.
Con un cartello tra le mani scrutava i volti dei turisti in arrivo cercando di scoprire il mio; sorriso sfavillante, molto accogliente, curiosava nel mio aspetto. Siriana e quindi devota ad ospitalità e convenevoli, non appena mi sono voltata guardandola, mi ha stretta in un abbraccio carico di pulsazioni inaspettate. Quando anni addietro i mezzi di trasporto non erano gli stessi di oggi l’uomo aveva il tempo di abituarsi al graduale cambiamento di realtà, un viaggio poteva durare giorni, settimane o mesi. Oggi, in quattro ore un aereo di linea mi aveva consegnata alla torrida afa del Medio Oriente, il tempo di sfogliare un libro ed eccomi a destinazione.
Fuori, il deserto, quello vero, fatto di sabbia e alberi secchi, strade inaridite dal tempo su cui correvano macchine, autobus, motori, furgoni, biciclette, cavalli, trattori e contadini.
Su uno di questi autobus percorrevamo la strada verso il centro di Damasco.
Musica araba, ciondoli ornamentali ad ogni angolo, un fumatore incallito nel sedile posteriore al mio. L’autista sbuffa spazientito dal traffico caotico e privo di logiche, fuma e beve tè caldo mentre inizia a recitare la sura della isha, la preghiera serale, mi guarda dallo specchietto retrovisore con lo sguardo severo di chi si sente osservato inopportunamente, abbasso gli occhi e mi volgo al finestrino.
“Inshallah, I’m going to Germany next month”. Felice Mansur parla dei suoi progetti, cerchiamo di capirci a gesti e parole. Solo da qualche anno a scuola si studia l’inglese, l’unica lingua da sempre studiata è l’arabo, la lingua del Corano.
Andrà a trovare la sorella sposata in Germania, finalmente in Europa a scoprire nuovi orizzonti. Farid invece ama Damasco, ama il suo paese, ha 25 anni ed ha appena finito il servizio militare. Dopo due anni e mezzo finalmente è tornato alla vita di tutti i giorni ed ha iniziato a cercare lavoro. Gli chiedo del servizio militare ma il suo sguardo si fa buio e sofferente, decido di cambiare discorso, mi risponde brevemente che la leva è un’ esperienza formativa. E’ devoto al suo paese, Farid, non troverebbe mai parole negative per parlarne. Come Aisha, è nato ad Hassake, villaggio beduino al Nord, fatto di contadini ed artigiani, una scuola e strade sterrate. Le donne lavorano nei campi o si occupano dei figli e la casa mentre gli uomini sono per strada a vendere frutta, verdura e prodotti di artigianato, le famiglie cristiane si possono contare sulle dita di una mano e la mentalità, la cultura e le tradizioni sono rimaste le stesse di molti anni fa. Le ragazze aspettano in salotto che il padre decida di presentare loro il futuro marito, in poche riescono ad andare all’Università. Fantasticano sul mondo che fuori le aspetta, Europa ed America sono il traguardo, alcune coetanee sono riuscite ad atterrarci grazie a un marito, un amico o un parente fidato, molte altre si sono rassegnate alla stessa vita delle madri.
Devozione.
In città quasi nessuno parla inglese, solo qualche negoziante si improvvisa anglofono per compiacere turisti spaesati e bisognosi di trovare lievi certezze in una realtà che faticano a concepire. Non riesco a smettere di guardarmi intorno curiosa di scoprire, capire. Fotografa improvvisata timidamente spio gli angoli delle strade, i volti degli abitanti, donne, ragazze e bambini. Chiese e moscheee, market e carretti forniti di frutta e verdura, venditori di spezie, formaggi e olive.
Dopo una lunga mattinata di visite decido di fermarmi a prendere un tè in un bar nel quartiere cristiano, Bab Touma, dove ho conosciuto numerose persone locali e studenti. Dopo qualche minuto arriva Tariq con cui inizio a chiacchierare. E’ inconsueto trovare una ragazza sola al bar. Cominciamo a chiacchierare e come un libro aperto Tariq inizia a raccontarmi la sua Syria, con gli occhi di un musulmano cresciuto per strada: “Questa sera c’è una festa, si festeggia la fine del mio servizio militare! Inizio una nuova vita.” Gli chiedo di spiegarmi come ha passato questi due anni di leva, si avvicina, abbassa la voce e mi chiede di entrare al bar, non è bene parlare per strada. “Quando è arrivata la chiamata per il servizio militare ho festeggiato. Ero felice. In quel periodo non avevo soldi e la mia mente navigava tra mille idee e sogni da realizzare, a diciotto anni hai voglia di sperare e immaginare il tuo futuro colmo di belle sorprese. A casa non potevo sognare. Dovevo solo lavorare, ho cominciato a 13 anni, stavo in giro tutto il giorno a vendere merce antica, potevo rientrare solo dopo aver guadagnato almeno 1000 lire (circa 15 euro). Mio padre lavorava duramente e beveva. Beve tantissimo. Tutto il giorno si ubriaca con l’arak. Da quando è tornato dalla guerra non riesce a fare altro. Bere, ubriacarsi, stordirsi per dimenticare, annebbiare quelle immagini terribili cariche di dolore. Sangue che scorre, grida, spari incessanti, volti esanimi. Donne e bambini in fuga. Guerra. Durante il primo anno di servizio militare eccellevo su tutti per velocità, destrezza, coraggio e capacità di adattamento, avevo segnato record durante tutto il periodo di addestramento. Poi, una mattina, la lettera. Dallo zaino usciva una busta bianca indirizzata a me, immaginavo cosa fosse ma stentavo a crederci, le mani tremavano e non riuscivo a tenerla così la appoggiai sulla brandina per riuscire a leggerla : Tu hai valide potenzialità sia fisiche che morali, vorremmo averti tra i nostri fedeli. Avrai un cospicuo compenso. Se accetti domattina ti aspettiamo alle 7 all’uscita. Hezbollah.” Non esitai, quei soldi mi servivano e sapevo che avrei retto. L’etica non mi interessava. Iniziai l’addestramento, ogni giorno dall’alba al tramonto: in pieno deserto. Non si vedeva niente all’orizzonte, solo deserto roccioso. Distese infinite color sabbia. Aride come la vita che conducevo. Ci nutrivamo di scorpioni, scarafaggi e di tutti gli insetti che il deserto ci procacciava, niente domande. Solo addestramento fisico e insulti sparati nelle orecchie. Le uniche volte che venivamo portati fuori dal deserto era per trovare un po’ di asfalto, strade fantasma su cui dovevamo sdraiarci nudi come bestie e aspettare che la pelle fosse bruciata del tutto. Ore ed ore sull’asfalto rovente, senza fiatare. Si avvicinava il momento di entrare in azione, colpire, uccidere. Tutte le certezze su cui si fondava la mia decisione iniziavano a crollare. Volevo tornare indietro, riprendere la mia vita, era tardi ormai, ero di loro proprietà e non mi avrebbero lasciato andare finchè fossi stato a loro utile. L’unica soluzione era diventare un peso. Decisi allora che mi sarei fatto male, dovevo rompermi qualcosa. Le gambe. Il mattino seguente durante i soliti esercizi di addestramento mentre ero arrampicato alla trave, ho chiuso gli occhi e mi sono buttato al suolo a peso morto. La mattina successiva ero a casa dai miei genitori.” Lacrime corrono nel suo sguardo. Vorrebbe piangere liberamente, non può, è un uomo.
Come Tariq ho conosciuto numerose altre persone locali che hanno avuto il coraggio ed il desiderio di raccontarsi. Per molti aspetti la Siria appare un paese sempre più solo ed isolato, abitato da un popolo finto, telecomandato, che non può esprimersi democraticamente, liberamente e con un leader, Bashir al-Assad, eletto, succeduto al padre dopo trent’anni di governo del padre, che non rispetta le promesse fatte durante le elezioni.
Un esempio su tutti per capire al meglio questa realtà è internet. Per il popolo siriano l’arrivo di internet ha rappresentato un reale rivoluzione, presentandogli un mondo fino a pochi anni prima sconosciuto ed inaccessibile, durante i primi giorni in cui è stato possibile connettersi numerosi giovani, esperti in informatica sono rimasti connessi per giorni, alla ricerca di notizie veritiere, reali, in contatto con il mondo esterno. Hanno così toccato con mano la lontananza inimmaginabile tra le notizie scritte sui giornali locali e quelle in circolazione sul net. Prima su tutte la candidatura a “stato canaglia” dagli Stati Uniti. Oggi Skype e Facebook sono banditi da tutti gli internet point. Nonostante ci sia una grande fiducia, forse necessaria, in questo nuovo governo, i problemi radicati nel sistema come la corruzione amministrativa statale, il controllo rigido ed ingiustificato sul popolo persiste in maniera molto rigida e violenta. La polizia segreta è in ogni bar, strada, negozio, casa o ristorante. Libera di fermarti, interrogarti e decidere che il modo in cui ti stai comportando non va bene, è inopportuno. Stranieri o locali, non fa differenza, con qualche lira siriana il problema verrà risolto.
Nonostante il clima spesso poco piacevole che si respira per strada, la benevolenza e l’ospitalità della gente comune fa da contraltare. Emoziona. Lascia quasi senza parole.
Lascia immaginare che possa esistere davvero un dialogo tra il mondo occidentale e quello musulmano. Noi e loro.
*tutti i nomi dei personaggi sono di fantasia
©Alessia Arcolaci
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COMMENTI (3)
Inviato il 14 marzo a 13:37
Molto bello il tuo articolo. È una bella storia.
Andrea Sabbatella da bb roma
Inviato il 12 novembre a 12:46
Complimenti vivissimi. Il tuo stile di scrittura mi sembra tutt'altro che da apprendista. Per me sei promossa ad "esperta viaggiatrice".
Ciao, Patty
Inviato il 23 aprile a 18:19
Ma come fai a scrivere con tanta sensibilità..brava c'è bisogno di leggere storie così belle