Con quel nome che sembra venire da lontano, dalla tradizione senza tempo di Roma, e contemporaneamente suona come un geniale gioco di parole, gli Ardecore sono diventati in silenzio una delle band italiane più autentiche, per non dire una delle migliori. Ieri ho sentito per la prima volta il loro ultimo album, il terzo della loro carriera, San Cadoco, che viene dopo Ardecore e soprattutto Chimera, che erano due stupefacenti lavori riproposizione della tradizione canora romana, argomento di cui non so una mazza, ma che, essendo italiano, sono in grado di comprendere in un baleno dopo l'attacco di ogni pezzo, al primo ascolto di un accento greve e disperato, al primo riferimento alla vita di borgata, alla malavita stracciona di Pasolini, alla volgarità del Belli, alla poesia del Fellini di Roma. San Cadoco, che è un album doppio, che è urlato, sporco, forse un po' troppo grezzo, ma ci sta vista l'origine ideale del gruppo e la voce del suo cantante, non sembra inferiore ai lavori precedenti: è meno retrò e più rabbioso, perché per fortuna alla fine uno dei revival si stufa, perché va bene cercare di rifare Tom Waits in Italia ma si può anche passare oltre, e perché, soprattutto, a una band capita di evolvere e magari incontrare per strada gente che si aggiunge in studio di registrazione (come David Tibet dei Current 93), che finisce per trasformare il tuo suono in qualcosa di profondamente rock, magari non così romano ma di certo universale.
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Con quel nome che sembra venire da lontano, dalla tradizione senza tempo di Roma, e contemporaneamente suona come un geniale gioco di parole, gli Ardecore sono diventati in silenzio una delle band italiane più autentiche, per non dire una delle migliori. Ieri ho sentito per la prima volta il loro ultimo album, il terzo della loro carriera, San Cadoco, che viene dopo Ardecore e soprattutto Chimera, che erano due stupefacenti lavori riproposizione della tradizione canora romana, argomento di cui non so una mazza, ma che, essendo italiano, sono in grado di comprendere in un baleno dopo l'attacco di ogni pezzo, al primo ascolto di un accento greve e disperato, al primo riferimento alla vita di borgata, alla malavita stracciona di Pasolini, alla volgarità del Belli, alla poesia del Fellini di Roma. San Cadoco, che è un album doppio, che è urlato, sporco, forse un po' troppo grezzo, ma ci sta vista l'origine ideale del gruppo e la voce del suo cantante, non sembra inferiore ai lavori precedenti: è meno retrò e più rabbioso, perché per fortuna alla fine uno dei revival si stufa, perché va bene cercare di rifare Tom Waits in Italia ma si può anche passare oltre, e perché, soprattutto, a una band capita di evolvere e magari incontrare per strada gente che si aggiunge in studio di registrazione (come David Tibet dei Current 93), che finisce per trasformare il tuo suono in qualcosa di profondamente rock, magari non così romano ma di certo universale.
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