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Romanzo d’appendice con pianta carnivora [2]

Da Ludovicopolidattilo

Romanzo d’appendice con pianta carnivora [2]

Ha inizio qui.

Si narra di una città che affiori all’esistenza solo due istanti ogni resa concessa al sonno, mai di più. Un istante quando i vincoli della veglia principiano ad allentarsi. Un istante quando le implacabili maglie della nostra natura diurna accennano a saldarsi. Pur esistendo per un tempo così breve, tale città non risulta né tenue, né incompleta. Non di abitarvi mi accade. D’esserne l’architetto, piuttosto, mi spetta. Qualcuno vi abita sebbene, come dissi, non si tratti di me.

Al pari di ogni città essa sorgerebbe il giorno in cui qualcuno sorprendesse se stesso ad amare un luogo. Accade ove essa sarà fondata. Non occorre venga costruito un edificio. Solo si ami quel luogo. Si desideri abitare una città.

La sequela di istanti diventa tempo senza che si possa impedirlo. Occorre dedizione nel giustapporre gli istanti così come i dettagli. Ad ogni elemento si faccia combaciare l’elemento coerente il prossimo istante disponibile. La pazienza. La cura. I complementi opportuni. La città nasce e cresce nel luogo ove si è scelto di erigerla. Infine vive. A lungo. Un’istante alla volta. La si chiami Città ipnagogica.

Gli abitanti della Città ipnagogica (circa centomila secondo il recente censimento) indossano abiti identici, le stesse scarpe, il medesimo cappello. Tutti inforcano occhiali al proprio risveglio per individuare e calzare le stesse pantofole abbandonate la sera prima ai piedi del letto. La montatura è metallica, di configurazione trapezoidale. Sobria. Ciascuno di loro porta con sé, ovunque vada, una valigetta di pelle bruna, riempita degli stessi documenti.

Uguali anche i volti. Tutti percorsi da tratti maschili. La barba è definita quotidianamente con cura mai eccessiva. Nella città ipnagogica non vi sono – prendiamone atto – donne.

Circa i documenti contenuti nella valigetta che ciascun abitante della città ipnagogica porta con sé, senza mai abbandonarla, occorre fare chiarezza. Nulla di meglio di un elenco dettagliato:
1) manoscritto di romanzo intitolato Provaci tu a mungere un rinoceronte!;
2) fattura relativa all’acquisto di numero sei cornici liberty misura 30×50;
3) biglietto ferroviario mai vidimato con destinazione “luogo con facoltà ritempranti disponibile appena verrà immaginato”;
4) fotografia raffigurante una natura morta con bicchieri, caraffa, cesto di frutta e testa di San Giovanni il Battista posta su vassoio d’argento;
5) CD audio contenente l’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Haendel ripetuta 41 volte;
6) fotocopie di pagine dell’edizione Gruneveldt del Faust relative all’avventura del protagonista presso il “Regno delle Madri”.

Alle diciottozerozero gli abitanti della Città ipnagogica sono soliti fuoriuscire dagli uffici ove hanno agito coerentemente alle proprie mansioni amministrative per fare ritorno alla propria abitazione. Nell’appartamento di ciascuno viene preparato cibo. Carboidrati in ogni forma suscettibile di assunzione.  Accompagnano essi, il cibo menzionato, con birra scura*.

Fa eccezione la torre. Presso la torre il lavoro continua. Qui cibo e bevande appaiono superflui e persino inopportuni. Pertanto non vengono né preparati né condotti.

I centomila abitanti maschi con barba, occhiali e abiti identici della Città ipnagogica, quando non lavorano, trascorrono il proprio tempo in appartamenti non già identici ma innegabilmente simili. Ciascuno composto da: ingresso, soggiorno, cucina abitabile, due camere da letto, bagno e cantina. In ogni ambiente, eccetto la cantina, è appeso un quadro. Tutti i quadri ritraggono una donna atteggiata in modi differenti e impegnata in differenti attività. La stessa donna. In ogni quadro. Sei quadri per ogni appartamento per centomila appartamenti ci inducono a ipotizzare l’esistenza di seicentomila quadri differenti che ritraggono la stessa donna. Infatti è così.

Gli otto quartieri della città ipnagogica compongono i lati di un ottagono regolare al cui centro è la torre.

Il quartiere delle inquietudini ancestrali è realizzato in stile gotico: ovunque cariatidi, gargolle, troll, coboldi, arpie e ciclopi ispirano dettagli architettonici, fregi e decorazioni. Il quartiere delle infanzie serene vede innalzarsi altissimi grattacieli a forma di matita o in alternativa a forma di pennarello. Il quartiere degli impieghi responsabili vede ogni cosa disposta al posto appropriato secondo un’organizzazione razionale in grado di garantire diffusa e irreversibile alienazione. Il quartiere dei passatempi licenziosi vede innalzarsi edifici a forma di gamba femminile capovolta indossante scarpa decoltè. Gli edifici del quartiere delle memorie irrecuperabili sono ridotti in macerie. Quelli del quartiere degli itinerari rimpianti sono circondati da giardini ove coppie di amanti potrebbero passeggiare vicini prima di tornare a dissolversi nell’alcova. Quelli del quartiere degli oggetti trascurabili nelle tasche degli abiti smarriti nei guardaroba dei teatri incendiati hanno forme irriconoscibili sebbene simili ad altre note che non vengono mai in mente. Quelli del quartiere degli esiti auspicabili sono obliqui e solo in apparenza instabili.

Alla base della torre è collocato il negozio. Qui gli abitanti della Città ipngogica si recano per acquistare quadri dal negoziante. I quadri che il negozio vende sono ritratti di una donna. La stessa donna. Nella Città ipnagogica non esistono altri negozi all’infuori del negozio. Il negoziante è cortese e di indole gioviale. Non si può dire i suoi affari non vadano bene.

Si narra che un giorno tutti gli abitanti della Città ipnagogica non si presentarono in ufficio. Quel giorno l’efficienza amministrativa della città risentì della cosa. Quando camminarono tutti e centomila, insieme, verso il negozio, aggiustandosi gli occhiali, alcuni ancora con le pantofole, altri con la barba esente dalla rifinitura mattutina, la situazione risultò piuttosto eccentrica.

Centomila uomini non sarebbero entrati tutti quanti nel negozio, per questo venne eletto un emissario. Questi entrò nel negozio e chiese al negoziante chi fosse la donna ritratta in ogni quadro. Il negoziante invitò l’emissario dei centomila a salire sulla torre. Lassù avrebbe trovato la risposta alla domanda che aveva appena posto.

L’ascesa perdurò alcuni minuti. Ai centomila che attendevano fuori dalla torre quel lasso di tempo parve assai più lungo. Infine l’emissario discese e tutti lo guardarono negli occhi. Quando parlò, i centomila seppero che nella stanza collocata presso la sommità della torre era posto un tavolo. Su quel tavolo un vaso. Nel vaso un esemplare di nepenthes madagascariensis dalle lunghe ampolle oscillanti.

Ciascuno fece ritorno alla propria abitazione. Perfezionò il proprio aspetto, completò il proprio abbigliamento se necessario. Quindi trascorse in ufficio il residuo di tempo disponibile.

Viene chiamata Città ipnagogica e sorge dentro di me. Affiora all’esistenza due istanti ogni resa concessa al sonno, mai di più. Un istante quando i vincoli della veglia principiano ad allentarsi. Un istante quando le implacabili maglie della nostra natura diurna accennano a saldarsi. Pur esistendo per un tempo così breve, tale città non risulta né tenue, né incompleta.

* Preferibilmente Struise Black Albert o Samuel Smith imperial stout. Raramente St. Peter’s Old-style Porter.

Continua…



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