E’ uscito nelle sale l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, “Romanzo di una strage”, dedicato alla strage di Piazza Fontana. Personalmente, trovo poche cose così mortalmente noiose, deprimenti, e piccine come questa fissazione della cricca degli artisti italiani più consapevoli per i “misteri” del recente passato. Il film infatti è già un evento, al quale, qualunque sia la vostra opinione sull’opera e sulla ricostruzione storica della vicenda, dovete pagare un tributo di attenzione, se non volete essere tagliati fuori dal salotto virtuale dei chierici dell’intellighenzia democratica. Ma voi, se siete interessati a cogliere il profilo di una certa Italia, e non alla chiacchiere, fregatevene del film ed osservate l’umanità che vi traffica intorno e che partecipa al “dibattito”. Le reazioni non si sono fatte attendere. Adriano Sofri ha addirittura fatto esplodere una molotov nella piazza mediatica con un pamphlet di cento pagine e passa contro certe tesi sostenute nel film, da lui qualificate assurde. Come per ogni vicenda storica, e umana, anche quella del terrorismo contiene aspetti paradossali, ombre, stranezze. Su questa realtà minuta ci si è tuffati, pur di fuggire la realtà stessa, nell’intento di cogliervi la trama nascosta del grande disegno antidemocratico chiamato strategia della tensione. La stessa cosa è stata replicata qualche anno dopo per le vicende di mafia. Questo assunto di fondo, che è il vero grande depistaggio che distorce la vita politica e culturale italiana, non viene mai veramente meno, cosicché anche quando irrompono nella scena nuove ipotesi, nuove scoperte, ed opinioni eretiche, e il quadro storico si fa più umano, meno schematico, questo travaglio intellettuale sa di muffa, come se sviluppasse in un circolo chiuso frequentato dalla solita famiglia dedita alla superstizione del servizi deviati, specie di categoria dello spirito di un popolo che davvero avrebbe ormai bisogno di respirare aria fresca, invece di passare il tempo a grattarsi con gusto la solita rogna. Sulle trame, sulle “stragi di stato”, sui servizi deviati, l’Italia migliore – quella più tentata dalle spallate antidemocratiche di piazza – ha costruito le sue fortune. Mantenere in vita questa fiction – questo grande romanzo – serve a perpetuarne l’egemonia culturale e il potere di suggestione. L’essenziale è che sia la sinistra a mettere il sigillo ad ogni nuovo capitolo di questa storia, quand’anche fosse in palese contraddizione con quello precedente: fuor di essa, della sinistra, nulla salus.
E’ una patologia che ha distorto perfino il linguaggio e il senso comune. Due esempi di questi giorni a proposito della riforma del lavoro. Prendete Ichino. Non avete mai avuto la tentazione di prender a schiaffi una personcina molto ammodo, molto intelligente, molto preparata, mite, e retta, e tuttavia incapace di buttare il cuore oltre l’ostacolo e di prendere atto di una spiacevole verità? Io Ichino lo prenderei a schiaffi. Per difendere la necessità della riforma presso i compagni di sempre deve per forza ricorrere al più assurdo degli argomenti, quello che associa il buono e il giusto alla sinistra: «Sì alla riforma, è di sinistra la parità tra protetti e non protetti», argomento che appartiene ad un credo filosofico-religioso, non alla politica e alla storia. E non sfugge alla trappola nemmeno Giuliano Ferrara, che peraltro ama épater le bourgeois e perciò ogni tanto inciampa nella sua piacevole irruenza, il quale, richiamandosi al libretto di successo firmato qualche anno fa da Giavazzi ed Alesina, quando certa sinistra voleva insegnarci il vero liberalismo solo perché il liberalismo era alla moda, scrive che in un certo senso non troppo paradossale, “un mercato del lavoro libero è una cosa di sinistra”. La quale invece è una sciocchezza bella e buona, tutta italiana, e non degna di te, Giuliano, che dalla famiglia ti sei emancipato da una vita.
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