Il sentimento che prevale è però la malinconia: è il 1974, e negli oltre quindici anni di attività, la carica goliardica e irriverente di Age e Scarpelli – come quella di tutta la Commedia all’italiana – si diluisce nel rimpianto, come soprattutto i film di Ettore Scola dimostrano. La loro generazione invecchia col genere ed è inevitabile che i loro toni cambino, che riflettano su se stessi e che i loro attacchi al costume e alle istituzioni non siano più così violenti. Sostiene a ragione Monicelli che la commedia ha bisogno di un bersaglio fisso, ben identificabile. Semplificando, ma centrando il bersaglio più gettonato: la Democrazia Cristiana, in tutte le sue manifestazioni politiche, sociali e culturali. L’aria di cambiamento, anche violento, che ha attraversato gli anni tra i Sessanta e i Settanta, ha disgregato quel bersaglio, spiazzando anche cineasti e sceneggiatori. Che cosa è dunque necessario per far ridere e riflettere sulla società allo stesso tempo, in un momento storico così caotico? È ancora possibile o legittimo, dopo l’esplosione del terrorismo sia a destra sia a sinistra? Continua Monicelli:
Il terrorismo ha fermato anche il percorso del cinema italiano, che non sapeva più rapportarsi con la realtà per raccontarla, perché poi la gente ha preteso giustamente di uscire dall’incubo e ha voluto soltanto evasione. Che il cinema americano ha prontamente fornito. Da noi il cinema delle storie si è bloccato.[1]
Questo blocco, però, non lascia Romanzo popolare privo di una sua storia sceneggiata a regola d’arte, o senza critiche sociali comunque consapevoli e pungenti. Ne è una prova il litigio tra Giulio e il commesso del cinema, che non vuole far assistere Vincenzina – incinta, per inciso – a un film per adulti, dimostrazione di zelo ideologico e ingenuità o idiozia pratica; ne è una prova la pur timida presenza delle lotte sindacali, pretesto per acuire il conflitto tra Giulio e Giovanni (Michele Placido); ne è ancora una prova il progressismo ostentato a parole da Giulio nei rapporti tra moglie e marito o padre e figlia, subito smentito nei fatti – è un uomo anche lui – quando scopre la debolezza di Vincenzina. Romanzo popolare è tutto quello che annuncia nel titolo: una storia in cui tutti possiamo identificarci senza volerci troppo male, visto il lato comico della faccenda sempre in agguato. Un finale più amaro, però, è difficile trovarlo in un altro film firmato Age-Scarpelli. Quasi crudele, per la miseria realistica cui si riduce Giulio e cui potrebbero essere ridotti molti di noi. Se uscisse in sala oggi, dentro il mare magnum delle commedie frivole senza un’altra industria culturale a fronteggiarle, si sarebbe chiamato Romanzo impopolare.
[1]Silvio Danese, Anni fuggenti, Bompiani Editore, p. 64.
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