Il primo riguarda mia nonna Lucia che, recandosi a Roma alla fine degli anni ’50 per una commissione, rischiò di morire insieme a mia madre ragazzina. La Seicento su cui viaggiavano fu travolta da una tromba d’aria e un albero si piegò sulla loro direzione. Nonna Lucia addebitò questa salvezza al neo Papa Giovanni XXIII e pensò bene di cambiare destinazione e recarsi a ringraziarlo. Giunti a San Pietro, si trovarono in una chiesa gremita con Roncalli tra la folla che, incrociando i loro sguardi, voleva dire qualcosa del tipo: “Sapevo che sareste arrivate. Vi stavo aspettando”.
Il secondo riguarda i miei vagabondaggi. A Cracovia ho conosciuto diverse persone che ricordavano il viceparroco don Karol e tra le cime della Valcamonica uomini e donne che avevano visto il Wojtyla, figlio delle montagne, incluso quel Lino Zaino che da mestro di sci del pontefice polacco divenne famoso per le testimonianze lasciate nel libro “Era santo, era uomo”. Tutti concordavano sul carisma di Wojtyla: riuscire a spogliare l’anima con un solo sguardo.
Vengo al dunque. Con la canonizzazione di questi “due Papi”, che legano sullo stesso filo la mia alla generazione dei miei nonni, non è forse arrivato il momento di svincolare la santità dalla religione cattolica?
Angelo Roncalli e Karol Wojtyla ci hanno convinti, attraverso le loro rivoluzioni in momenti storici e su fronti opposti, che la santità non necessita di tonache ed altari, così come di quel fanatismo verso le reliquie che intrappola la storia tra ragnatele medievali. Una volta passavano secoli prima delle canonizzazioni, oggi “i nuovi santi” li nomina il nostro tempo, spesso avido di miracoli e visioni. Roncalli e Wojtyla ci hanno dato una bella lezione, già prima di indossare quella tonaca che li avrebbe condotti verso l’altare.