Rosa Salvia legge un libro pubblicato postumo di Alessandro RICCI, poeta appartatissimo e misconosciuto. Un’occasione per presentarlo al distratto mondo della poesia e all’attenzione della critica.
ALESSANDRO RICCI, L’EDITTO FINALE, a cura di Francesco Dalessandro
prefazione di Domenico Vuoto Il Labirinto, Roma, 2014
di Rosa salvia
Davvero L’editto finale non è un libro di rimasugli, ma un libro naturalmente, vitalmente in fieri, un libro che sembra comporsi e prendere senso sotto i nostri occhi e quasi con la nostra collaborazione; un libro che ha l’aria di venire, più che dal passato, dal futuro. E ciò lo si deve in gran parte all’amorevole certosino lavoro di recupero dei testi da parte di Francesco Dalessandro, curatore dell’opera.
Inoltre, una poesia così vitale e controversa, dove luce propria e luce riflessa coesistono, non può sorprenderci, assomigliando moltissimo a tutto ciò che Alessandro Ricci è stato come poeta e come uomo, “un Werther leggero” (come egli stesso ama definirsi ne “La confessione”, ultimo grande testo della raccolta Le segnalazioni mediante i fuochi (1985). Leggero, ma non per questo meno tragico, come precisa Francesco Dalessandro nella sua nota alla plaquette L’arpa romana, sempre a sua cura, uscita nel 2007, per le Edizioni Il Labirinto.
L’arpa romana, una raccolta propedeutica per la sua brevità a L’editto finale, citando lo scrittore Fabio Ciriachi che ha dedicato all’analisi di tutta la produzione poetica di Alessandro Ricci un lungo, complesso e dettagliato articolo, uscito il 21 luglio scorso su “Critica impura.”
La raccolta è divisa in sei sezioni.
L’io autobiografico, in continuo passionale scambio con il mondo, è il punto di riferimento
forte e autoironico, naturale e trasgressivo, della parola poetica.
Poesia intimistica che in molti casi rimanda a Penna con illuminazioni improvvise di straordinaria freschezza.
Poesia – meditazione convergente alla viscerale richiesta sul nucleo ossimorico amore- dolore che sta alle radici della condizione umana.
Un ansare potente e a tratti disarmonico, sempre accompagnato da un sotterraneo mormorio interiore leopardiano, che cerca di attuare l’impossibile innesto tra il respiro individuale del poeta e quello dissonante e fragoroso del suo tempo.
Non c’è in Ricci un paesaggio, una risonanza intima, che non susciti, oltre l’emozione, una riflessione esistenziale sul destino che ci è stato assegnato, fatto di simulazioni, di angosce, di sopravvivenze, ma anche di voglia di vita vera. Ricci attraversa tutti gli studi esistenziali alla ricerca della “vita vera”. Con i suoi versi sembra dirci che il vero sta nella fantasia naturale per cui la realtà non è altro che uno schermo, la tavola pitagorica della cosciente disperata condizione umana sospesa come a una clessidra. E la poesia è fatta con le cose effimere di questo mondo; ma nel suo continuo consumo ricorrente e risorgente, essa approda a una nozione di durata che diviene una visione laica in chiave divina della vita del singolo e dell’intero cosmo.
La lingua poetica è composita: la sintassi talora impressionistica e iterativa tende a disarticolarsi in pungenti scosse alogiche, talora invece parzialmente narrativa rimane fedele all’accezione greco-latina della parola di classica compostezza.
E in tal senso la poesia di Alessandro Ricci è anche una metafora della bellezza, una finestra sull’invisibile che ha la forma dell’armonia e della proporzione, è la concezione greca del bello.
La struttura equilibrata, ma a tratti volutamente dissonante, ‘dodecafonica’, la musicalità intensa e la ricchezza figurale del testo, il ricorso a sapienti e misurati arcaismi si armonizzano in effetti in un tutt’uno in cui ciascuna parte congiura alla bellezza di tutte le altre.
Aneliti di libertà, sogni risvegliati, ricordi senza tempo di affetti, di amici (cito in proposito la bellissima poesia “A Paolo Bardelli”, pg. 106), di luoghi o di cose, colorano la poetica del viaggio che specchia le itineranti avventure di uno spirito che non si arrende.
È sempre solitario il peregrinare, destino di molti, ma riflesso di ognuno che nel segreto incontro, ripete ciò che da sempre, nell’archetipo di Odisseo, è il cercare, il cercarsi.
Le soste commuovono, quietano, riparano lo stremo del movimento, schiudono sapori di contemplazione e di ristoro.
Ma non bloccano l’andare.
E corre il tempo, si rinnovano gli spazi, si trasforma la memoria che con la penna traduce gli affetti, la rabbia, il dolore in canto e i silenzi si fanno voci, voci di dentro.
Rivelativo nella poesia di Ricci è il controcanto a tutto ciò. Vedi quell’autentica controfigura che è la morte. Cui par di dover attribuire un tratto di demonicità nel senso più squisitamente pavesiano. L’antifrasi perfetta. Anzi speculare, verrebbe da dire. E se la vita, se pur nella sua drammaticità, lascia dietro di sé un’ ombra di nostalgia, al contrario la morte non suscita altro che nulla. Che cosa mai potrebbe riflettere la morte se non l’impossibilità di riflettere alcunché ( e quindi l’impossibilità, davvero demonica, di liberare l’io da se stesso, dalla propria autoriflessa prigionia, dalla propria condizione di totale provvisorietà).
Lo stile però non si chiude mai su se stesso: sempre esso è uno strumento della espressione delle emozioni o dell’osservazione minuta della realtà. Lo stile è come la lente d’ingrandimento, come il microscopio, come la mano che disegna un nibbio che si estasia in lentissime ruote lassù […], un caffè, la sigaretta, o una presenza umana.
Lo stile serve per invocare una presenza potente – quelle presenze reali alluse da Steiner, e per testimoniare di ciò che si è perduto: per raccontare il tangibile e il solido e l’effimero e il lontano, perché il paradosso per cui ciò che è perduto ed è già scivolato nell’inesistenza continui tuttavia a restare con noi. Da una poesia all’altra, quasi da una strofa all’altra, si passa dal vivere all’assenza che morde tutto ciò che sembrava più fermo. Ma anche passato e futuro, entrambi potenti, entrambi incarnati nella doppia condizione di colui che è figlio e padre nello stesso tempo. Nella poesia “La sagoma del quadrato” che chiude la raccolta, il padre-figlio delle generazioni passate, è il vincolo con patrie perdute e con origini che né la nostalgia, né la memoria, né ciò che il tempo non ha ancora devastato, possono riabilitare, forse perché solo il nulla le ravviva, anche se dolcemente.
In conclusione incontrare un’opera poetica così ricca, una poesia che è la parola massimamente carica di senso, per citare Ezra Pound, ci scuote come trovare un cibo che non finisce mai, che sempre si rinnova e che non perde il sapore della primizia quando diventa abitudine.
***
da L’EDITTO FINALE
E poi l’editto finale.
E poi l’editto finale.
Qui, per fughe dolenti
alla marina metallica
giunti
- il mondo meno
il nostro,
meno
noi – , separati
flussi e ristagni, amore
e rinuncia, conoscenza
e oblio, un perdono
da un altro, puri
tronchi e relitti: cose;
stiamo in quel punto
vicino al tutto, vicino
al niente, dimenticati
dimenticando: sillabe
di parole, vani
granelli,
nell’alba ingenua
che non li aduna.
- 19
***
da CON LIEVI VARIAZIONI DI TONO
Madrigale pensile
Resta ancora un poco.
Il vizio
dell’espressione, il fiato sospeso
sui pozzi, il pugnale
della rovina, finiranno. Comincia
l’estate.
Su questa terrazza elevata
ci siamo guardati, a lungo,
negli occhi.
Il colore dei capelli
si mescola ai coppi rossi
dei tetti. E rossa
è la tua bocca.
Lascia cadere il vestito prima di sera.
Il basso canto di chioccia si dipana
perfettamente.
Lascia cadere il vestito prima di sera.
pg.34
Anticipo di stazione
Ti richiama quell’orlo
di tempo che già gli angoli
di Testaccio con una veste
arancio zitta e birbona.
Sull’agorà dove si ammassano
binari e colombi in quest’ora
flava di siesta.
La memoria
è il nume adiposo che scrocchi
alle musichette sbadate
del pranzo e ai randagi
pazienti fra le immondizie.
pg.39
***
da LA PERFEZIONE DEI RUOLI
L’explorator
Primo sulla collina di Sèffos,
vide l’altro versante pieno di Parti.
_ Quadrato stavolta ha sbagliato
di grosso, non era qui che dovevamo
passare. Ci faranno a pezzi prima
di sera. Noi, i Romani, i padroni
del mondo.
Si voltò a guardare la coorte,
la migliore della legione: silenziosa
e composta, s’avvicinava alla cima.
Non fischiò
il pericolo ai suoi come avrebbe
dovuto. Si distese a guardare
una nuvola lentamente fra i rami,
tanto era troppo tardi.
- 50
Apparve con promesse solenni
Apparve con promesse solenni
a una bifora di castello.
Stette lì, stette nel riquadro
finché una luce si accese
alle sue spalle.
Ne bruciava
il contorno, amavi le parole
ch’erano
state dette.
- 62
***
da LA CADUTA DEL SUONO
Il male sciocco
Piove.
Un passero.
Due passeri.
Malamente
sotto le rose stillanti.
Poi il vetro s’appanna
e non vedo più.
- 69
La felicità del fumo
La felicità del fumo
tra le colline, i cipressi
verdissimi nell’astuta
mattina, splendida
di gennaio, i tarocchi
di Nando, le sue
parole sulla memoria
dolce perché irrimediabile,
la forza della redenzione,
lo sguardo non invidioso
alla gioia dei piccoli,
alla serenità dei vecchi
gentilissimi sulle scale, questo
sentore d’Umbria in tutt’altre
regioni, prati, rivi,
greggi illuminati in parte: il sole
infatti cala dall’alto, e sotto
si muovono o stanno fermi
l’ombra e il dolore, da cui
si sale finché si può.
- 74
La caduta del suono
Il peso della cenere, la ragna
recisa, la caduta del suono.
Oppure l’aggirante al colmo
della pena alle tempie
inferno
di stelle massicce, e la salma
pugnalata del cuore: di quante
feroci plètore o minuzie
è incendiaria l’angoscia,
quanto
ne dura il fuoco.
Fino al fior di papavero
- il grido – rosso
e imponente che s’accampa
sul fondo luminoso
dell’azzurra follia.
Allora tocchi dell’eco
la leggerezza, dell’odio
l’amore, della morte
la piuma.
pg.78
***
da IL VIAGGIO
Vacanze in Sicilia
Al logico bandolo
della matassa, fra i visi
irati della compagna e degli
amici dell’equipaggio, fra
i canapi degli ormeggi e la
gru cigolante e nera
sulla nave arrugginita
di Cipro, in questa cala,
inabissale dal modestissimo
fondo – melma, nafta
e limaglie nell’acqua che
sciaborda sulla murata – , qui,
porca Mazàra, dove
m’aspettavo la Tunisia – e
c’era, c’era – nel quartiere
arabo bianco e bianchissimo,
cristo rividi invece
esule di là dal faro il
mare ammaliato al largo,
perché semplicemente non resta
che lo spazio d’una giornata di sole,
innamorato
o indifferente, contro
la solitudine.
pg.87
***
da COSÌ
E venne un silenzio
E venne un silenzio,
proprio là dove
già ce n’era uno,
abituale e vecchissimo, e
lo sovrastò completa-
mente: assoluto,
assolato,
ma d’un colore
di ghiaccio, di cera
chimica, perfetta,
assassina.
pg.112
La sagoma del quadrato
Quando la levità d’un’ idea
si fa così estrema,
e l’ultimissima linea,
esattamente uguale
alle altre, nasce come un figlio
di cui si è figli, o
si torna all’atto, all’attimo
del proprio concepimento,
e indietro tutta, fino
a sentire l’intero tempo
delle generazioni,
gli antichi morti e i futuri
viventi, allora
è finita,
anche se dolcemente.
Roma, il pomeriggio del 10 maggio 1999
pg.113