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Rose

Creato il 31 luglio 2010 da Viadellebelledonne

Rose

di Ilaria Seclì

 Ho scordato le rose sul treno. C’era una musica lenta e aspra, di limoni inaciditi e di sansa. Porto sul vestito a fiori il sorriso e la serenità di mia nonna, i fazzoletti neri sulla  testa, i grani del rosario, le litanie, le monetine di qualche città a cui ho dato i passi e il sorriso, l’odore di uva e di botti tra via Siena e via Tripoli, prima di andare a salutare i miei vecchi, all’ombra di una rimessa con le volte a botte dove sedevano nella pace del pomeriggio, fino a sera tardi. Mia madre con ago a cucire nei silenzi primaverili o estivi, mentre giocavo a vendere stoffe, convincendo immaginari acquirenti e mercanteggiando sul prezzo, o cantando con microfoni invisibili di fronte alle piante del giardino. Sui prati di Parigi ci sono ragazzi sdraiati, beati, aperti come girasoli. L’ascensore rosso apre sull’appartamento verde di Marta abitato da rane ciondolanti dappertutto. Sudamericani, musicisti, uomini e donne di lettere e vita, in perenne festa. La vasca da bagno è nella camera da letto, si entra scendendo un gradino dalla moquette verde, con la porta-finestra accanto e il lavabo a colonnina di fronte. Dire parigino è cosa che sa chi ci ha vissuto, effervescente ampolla che seduce per sua natura. Il tè degli arabi vicino alla moschea, la notte che non viene.

La bellezza abita il silenzio, lo fa nella Città Bella, ingioiellata con l’umiltà polposa e vuota della sua pietra. Le casacche bianche o color latte sulle pelli scure a ricordare il Mediterraneo che ritorna da remote e vivissime onde saracene. Ci sono terre che non sgualciscono il passato, lo ritrovi, pelle tesa adolescente, in un crocicchio, nell’edicola votiva, in una grotta, un vicolo, in una cucina, nella masseria, nel porto dove il vento non va mai incontro alla cronaca, ai fatti, all’attualità. E’ mediterraneo, vento nato sospeso tra oriente e mare, nasce e non appieda. La storia è ferma ai canti delle tabacchine, ai piedi e alla dignità dei contadini dell’Arneo. La bellezza abita il silenzio, lo fa a Praga coi santi di ponte Carlo che ti cuciono le labbra se li guardi, con l’isola di Kampa che ti affonda in un miele di zolfo e le guglie dorate intorno che appendono il tuo spirito come sacco penzolante d’impiccato, tra il Golem e i fumi della Moldava. Se vai d’inverno impari a parlare coi fantasmi e ci giochi con i dadi in un’osteria dove mani di morti ubriachi muovono i tasti di un vecchio pianoforte e un ebreo, in libera uscita dal cimitero, suona il violino.

Ci si incontra per strada, nessun vincolo tecnologico al fanatismo e alla puntualità del fato, del destino. Fato e destino sono cuochi fissi, ossessionati dai giochi di simpatia e affinità. Se hai un desiderio, nella Città Bella, è un attimo e diventa reale, saranno le oziose cariatidi, saranno i gradini delle chiese, una serie interminabile di angeli ruffiani e animali da circo. I desideri non hanno lunga vita, lì. E’ un attimo e il vento ti porta dove vuoi. A quel punto la danza intreccia cori e sospetti, se ne fa una giostra, una risata, un occhiolino, una lapidazione comica.

C’è una casa di marzapane e Africa con la mansarda che offre il petto alle malìe del nord, legno e tetto che cade al panorama. Dall’interno la finestra si stende sui disordini densamente popolati del Senegal e odori di soffritto e nenie delle quattro di pomeriggio, preghiere di marinai che supplicano di rivedere Itaca o ringraziano per averne trovata un’altra affine e calda, con l’abbraccio di rondini che fanno cerchio nel tuo pezzetto di cielo e felicità, a farti capire che non c’è solitudine in quei luoghi oltre quella che ti porta sul tappeto rosso di una divinità pagana. Dalla parte del nord, chiesa dell’Angelo e della Provvidenza, steli di destini sbrecciati rompono l’estatica perfezione azzurra del cielo. A sinistra, pochi metri da Corte del Verrio e la sua dimora, matrona incontrastata e saturnina, santa Croce si offre severissima, irraggiungibile ai turisti. Ti pare di poterla mettere nella coppetta del gelato che stai mangiando, ti pare di fermarla in un obiettivo, di poterla filmare. Non ne troverai niente, sfuggente e superba, se non un’indefinita sensazione di immensità, stordimento, ubriachezza, sogno, eccesso inconsumabile. Niente stride col destino dell’uomo, nessuna scenografia, nessun rumore. Non dice il falso, la Città Bella, le rovine sono rovine dorate, il silenzio è il silenzio dell’uomo e delle cose. Niente falsifica, mistifica la nostra condizione di animali inesorabilmente decaduti, caduti, persi, né i negozi, né l’autobus, né i giardini, le ville, le piazze, il vento. Tutto è un ricordo, un vago alone di gloria svanita e in questa cava d’ambra pullulano vite senza smania né ambizioni, vite di terracotta, testimoniano, fragilissime, la vanità di tutto, a gloria e ferita di ciò che è perso e fu grande, immenso. E all’infinito si tende, in una danza perpetua il cui inizio s’intravede nei deliri di rosoni e colonnati, delle facce e dei corpi maestosi di severe e indomite cariatidi. Il tempo non è tempo del progresso, è tempo dello spirito, è tempo onirico. Ecco perché impera lo stendardo della voluttà come in poche altre città. Se sottrai il profitto e l’ambizione, resta il tempo del piacere.

Trieste apre succhi di melograni vizzi e spezie di oriente, latta e rame nelle nicchie di botteghe di mercanti ebrei. Un cimitero che culla una reggia di leonessa. Una donna in uno specchio opaco che la salsedine ha reso ingiusto. Canto muto, litania inceppata sulla maniglia verde del bistrot, sul boccale del matto, sulla sua spalla, testa china.

L’impero è lì, in una maceria bianca, solenne, maestoso. Eccesso e voluttà autistica. Silenzio. I gatti svettano sulle colonne corinzie, i gatti strappano le confidenze degli angeli e degli ubriaconi.

Le mappe scivolano trasparenti sul lago del tè, qualcuno con la testa appoggiata sui fondali le legge con la lente al contrario, coi piedi, con gli occhi del gufo.

Ora c’è un gatto al davanzale, fuma, compagno muto e senza pensieri. Il perimetro del mondo che lo riguarda disegna le piazze battute da danze sfrenate, le notti lunghe lontane da queste, brevi, vuote, giungla d’asfalto, inutili pensieri. Io non venero ciò che voi venerate, né voi adorate ciò che io venero. Lo specchio è deformante e sdrucciola la geografia, si avvelenano i ricordi e non c’è toppa per queste chiavi. Per quanto sorde sono le orecchie che sanno la tua voce. Per quanto piccole sono le strade che hanno battuto la luce dei tuoi giorni. Per quanto piccolo, quel mondo, ha accolto il circo e i suoi animali, e nessun domatore ha mai scoccato forte la frusta. Solo qualche fantasma bussa la notte a rompere il silenzio. Lo spazio si sceglie per voluttà, per esigenza di avventura, come la casa sull’albero, il pesce pescato all’alba. Lo spazio regolato da altre esigenze è utile solo per le misure esatte del loculo.



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