ROMA – Lasciata allo sbando, tagliata fuori dalla carriera,
emarginata da ospedali e colleghi. Tanto da sentirsi quasi costretta a
gettare la spugna e diventare obiettore di coscienza. Rossana Cirillo racconta a
Repubblica la sua
difficile vita da medico abortista.
Nel momento delicato in cui è rimbalzata su tutte le cronache la vicenda di
Valentina Magnanti, che ha denunciato di essere stata costretta, nel 2010, ad
abortire da sola in un bagno dell’ospedale Pertini assistita solo dal marito perché
tutti i medici avevano praticato l’obiezione di coscienza, parla
Rossana Cirillo,
ginecologa femminista che per 25 anni è stata medico abortista. E
denuncia una realtà scomoda, drammatica.
Che l’ha obbligata, a un certo momento della sua carriera, a diventare obiettrice. Per forza.
La donna parla con la giornalista di
Repubblica Maria Novella de Luca:
“Sola, abbandonata in quella trincea, tagliata fuori dalla carriera e costretta a fare aborti come in una catena di montaggio, senza più nessun contatto con le pazienti, emarginata dall’ospedale che ha sempre considerato il mio un lavoro degradante, ho fatto l’unica scelta possibile ma che avevo sempre respinto: mi sono dichiarata obiettrice, ho detto addio al reparto che con tanta fatica avevo costruito e ho cambiato vita». C’è la storia di un’esistenza nelle parole di Rossana, ma anche un’accusa dura e sofferta: «Noi medici abortisti siamo stati lasciati soli»”
Il naufragio della legge 194:
“Nel suo studio che guarda il porto di Genova, con le pareti colorate dalle foto dei primi sorrisi dei tanti neonati di cui oggi segue la gestazione, madre di due figli e già giovane nonna, Rossana Cirillo racconta il naufragio della legge 194. Boicottata dalle istituzioni, ma dimenticata anche da chi «naturalmente avrebbe dovuto proteggerla, la sinistra, i movimenti delle donne». E la sofferenza di tanti medici che pur di applicarla hanno pagato prezzi altissimi, umani e professionali. Burnout, bruciati. Rossana ha la voce pacata, nessun pentimento, nessun rimpianto, ma l’amarezza sì, quella si sente. «Quando ho scelto la specializzazione in ginecologia militavo nel collettivo femminista di Genova, ero politicamente vicina al Manifesto. L’autocoscienza, l’autovisita, i consultori. Entrare nel servizio delle interruzioni volontarie di gravidanza, mi sembrò un approdo naturale del mio percorso sia umano che professionale». Sono i primi anni della legge 194 e l’ospedale in cui Rossana Cirillo lavorerà come ginecologa per 25 anni è “Villa Scassi” a Sampierdarena, complesso quartiere di Genova”
Gli aborti nei primi anni della legge:
“«L’aborto in quella realtà di periferia fu una specie di bomba: le donne venivano a decine, avevano alle spalle il trauma degli interventi clandestini, erano incredule che qualcuno si prendesse cura di loro, in un ospedale, in una sala operatoria. Parlavano di sé, si aprivano, si creava un rapporto, alcune purtroppo tornavano, altre invece hanno imparato la contraccezione, altre ancora sceglievano di tenere il bambino. Poi sono arrivate le più giovani, quelle della mia generazione, consapevoli di un diritto acquisito. Con tutte comunque c’era un legame, e questo dava un senso al mio lavoro, al mio impegno»”
E poi, c’erano i colleghi. E quella difficoltà a far applicare la legge:
“«All’inizio, negli anni Ottanta, avevo accanto un gruppo di medici motivati e impegnati nel garantire l’applicazione delle legge». Una primavera breve però. Perché appare subito evidente che fare gli aborti, sempre osteggiati dalla direzione sanitaria di “Villa Scassi”, confina i ginecologi in un mondo sanitario di serie B. «Quasi immediatamente tutti si dichiararono obiettori. Eravamo rimaste soltanto in due, un’infermiera ed io, senza nemmeno un anestesista, mentre il lavoro cresceva a dismisura. Non potevo partecipare ai convegni, non potevo assentarmi, fare altro: solo e soltanto aborti. Ho tenuto duro per un tempo infinito, senza di me il servizio si fermava, ma sentivo un peso ormai insostenibile». Turni massacranti, l’ostilità dell’ambiente, le minacce. «Il mio direttore sanitario non mi ha mai sostenuto. Ricordo però che un giorno mi disse: “Non capisco dottoressa perché lei fa tutto questo ma evidentemente ci crede davvero”».
Poi, la sofferta decisione di gettare la spugna:
“«È stato alla fine degli anni Novanta con l’arrivo in massa delle immigrate che qualcosa dentro di me si è rotto. Si presentavano decine di donne disperate, nigeriane, albanesi, cinesi, figlie della miseria e delle prostituzione. Abortivano e se ne andavano. Impossibile senza mediatori culturali, senza assistenti sociali, instaurare un rapporto con loro. Ho cominciato a stare male. Mi sentivo soltanto un braccio esecutore, come se ci fosse ormai una inquietante selezione tra le donne, e il diritto di avere un figlio fosse consentito soltanto ad alcune e non ad altre, come queste invisibili che arrivavano in silenzio e poi scomparivano».
L’obiezione di coscienza:
“Rossana capisce che è il tempo di smettere. Ma per smettere deve fare ciò che ha sempre contestato: l’obiezione di coscienza. Nel frattempo suo figlio ancora studente diventa padre. Una vita nuova che chiede vita nuova. «Ogni tanto mi diceva: mamma perché fai questo lavoro…». «Prima di obiettare ho aspettato che qualcuno prendesse il mio posto. Sono arrivati dei ginecologi maschi. Forse è meglio così». Rossana oggi fa la professione privata, segue le maternità delle sue pazienti e si occupa di una malattia rara ma invalidante, la “vulvodinia”. «Sono stata emarginata e penalizzata, ma sono serena e consapevole di aver aiutato centinaia di donne. Al mio cuore questo basta»”