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Rosso scuro quasi nero è tratto dalla raccolta di racconti I calzini del Cardinale.
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Padre nostro che sei nei cieli…
Il frate, un domenicano con gli occhi buoni e la faccia pulita, iniziò la preghiera che precedeva l’inaugurazione del supermercato.
Per reagire al turbamento che quelle poche parole mi avevano procurato, dissi a me stesso che anche Tomás de Torquemada e la sua cricca erano domenicani, ma l’espediente psicologico non funzionò… Per quante volte avessi udito l’inizio di quella preghiera, non ero mai riuscito a farmela scorrere addosso: quell’invocazione mi procurava sempre un indefinibile brivido nell’anima.
Succedeva la stessa cosa quando la radio o la televisione diffondevano le note dell’Internazionale.
Da queste mie sensazioni, si potrebbe inferirne che io sia un “Catto-Comunista” e in parte è anche vero. “Catto” lo ero stato di certo nella fanciullezza e nella pubertà, per via del seminario nei francescani. Per quanto già da bambino detestassi l’autorità in quanto tale, il messaggio di Francesco era attraente, eroico, commovente; dava senso all’essere senza alcun dazio da pagare a chicchessia. Dava anche un senso alla monotonia dei giorni trascorsi a pregare, studiare e poi ancora pregare. Per mia fortuna e degli sfortunati fedeli che avrebbero dovuto sorbirsi le mie prediche, qualcosa non aveva funzionato. Sono stato anche Comunista, per circa due anni, alla fine degli anni sessanta. Finché non mi sono accorto che nel fuoco della passione acceso dagli ormoni e alimentato da qualche buona lettura, Cristo e Marx bruciavano entrambi come ciocchi ben stagionati e le differenze di luce che emanavano erano pressoché irrilevanti. Da allora non sono più né l’uno né l’altro. Se qualcuno mi chiede da che parte sto, non so cosa rispondere; me la cavo dicendo che sto rielaborando il concetto di “parte” e che appena avrò terminato troverò la risposta…
Il pensiero che quelle parole e quelle note mi fossero rimaste attaccate all’anima come piattole, nonostante avessi concettualmente e storicamente fatto a pezzi tanto il cristianesimo quanto il comunismo, mi procurò un acuto senso di fastidio.
Cercai con lo sguardo “il mio braccio sinistro”, come lo avevo affettuosamente “battezzato” il giorno in cui mi fu chiaro che il destro era ipotecato dal Presidente della Cooperativa.
Cercai d’immaginare come il mio più stretto collaboratore avrebbe interpretato il turbamento che mi procurava l’incipit di quella preghiera. Forse avrebbe detto che Dio non smette mai di cercare le pecorelle smarrite e che, prima o poi, anch’io avrei dovuto rispondere al suo richiamo e tornare nel gregge. Quel pensiero mi fece sorridere. Il mio “braccio sinistro” era un brav’uomo e gli volevo bene, anche se mal sopportavo i suoi goffi tentativi di evangelizzarmi per la seconda volta…
Collaboravo con la Cooperativa da due anni: come Consulente marketing durante il primo anno, e poi come Direttore Commerciale, anche se sulla carta continuavo a figurare come consulente. Succede anche nelle migliori famiglie d’interpretare la normativa sul lavoro in modo creativo e la “grande famiglia Coop”, a cui apparteneva la Cooperativa, non faceva eccezione. Sapevo che il contratto di Consulente era solo di facciata perché, dopo poche settimane ero diventato membro della Direzione che gestiva l’azienda. Lo sapevo e lo avevo accettato come un qualcosa di implicito nel mio rapporto col Presidente. E poi, durante i primi mesi, avevo immaginato che sarebbe stata una bella esperienza.
L’idea che avrei potuto degnamente concludere la mia carriera di manager nel mondo Coop, ne era uscita particolarmente rafforzata dalla mia partecipazione all’Assemblea nazionale delle Sezioni Soci. Durante quei pochi giorni avevo conosciuto la storia della Coop; respirato la passione con cui i molti discutevano in cerca della cosa giusta da fare. Avevo ascoltato e anche valutato i discorsi di alcuni dei pochi che comandavano. Il linguaggio dei molti non era sempre impeccabile, ma coinvolgeva e risultava attraente; quello dei pochi invece, filava via elegante e possente come una barca di Coppa America, ma suscitava solo ammirazione.
Per uno come me, che ha sempre lavorato per il profitto di uno, l’idea di contribuire al risanamento di una Cooperativa in crisi era qualcosa di nuovo: avrei lavorato per il profitto di molti, oltre che per chi mi pagava lo stipendio. Ero orgoglioso di collaborare con una cooperativa “rossa”, come venivano aggettivate dai detrattori le cooperative del Sistema Coop.
In seguito, me lo sono chiesto spesso cosa e quanto di “rosso” fosse rimasto in quello che era diventato nel tempo un impero economico e finanziario; ma la risposta non era semplice, perché sembrava che la Coop avesse più di un’anima e altrettanti padroni…
… venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…
Finalmente riuscii a individuare il mio “braccio sinistro”: se ne stava dritto e impettito, con quel suo bel faccione mediterraneo e la fronte ampia rigata da qualche goccia di sudore. Per l’occasione, indossava un completo scuro che lo snelliva nella figura e una camicia bianca, impreziosita dalla cravatta monocromatica che gli conferiva un che di professionale, anche se il nodo era troppo grosso e, a causa dell’apprezzabile raggio di curvatura della sua pancia, la gamba della cravatta pareva ancora più corta.
Dall’espressione sofferta del volto, si percepiva che avrebbe preferito trovarsi nella sua casa di campagna, ma il Presidente non gli avrebbe perdonato una defezione da quella che considerava la celebrazione del suo personale trionfo. Nonostante il mio “braccio sinistro” fosse anche il braccio destro del Presidente, questo non lo metteva al riparo dalle sue sfuriate perché, a torto o a ragione, capitava che il grande capo lo usasse come uno zerbino. Il Presidente, ogni tanto, sentiva il bisogno di ripulirsi la coscienza dalla merda raccolta negli ambienti politici che doveva “necessariamente” frequentare. Per il bene della Cooperativa, s’intende. Avevo assistito più di una volta a quelle scenate e, in tali circostanze, mi ero sempre sentito come il terzo incomodo che assiste a una lite tra amanti.
Essere il braccio destro del Presidente della cooperativa e quello sinistro del Direttore, offriva comunque dei vantaggi; come quello di assicurarsi un posto in seconda fila: il più possibile vicino ai tre Presidenti che, nel suo immaginario di fedele cooperatore, forse rappresentavano quanto di più vicino a Dio si possa trovare sulla terra.
Me li guardai per bene e uno alla volta gli dei del mio “braccio sinistro” e amico: avevano lo sguardo chino quel tanto che la circostanza richiedeva, ma con la coda dell’occhio che ammiccava ai registratori di cassa. Forse, già che c’erano, stavano approfittandone per chiedere a Dio di esaudire i loro desideri. La mia fantasia si divertì a creare irriverenti geometrie speculando sull’altezza dei tre Presidenti: uno alto e slanciato, piuttosto tondi e bassi gli altri due.
Cercai d’immaginare cosa i Presidenti avrebbero chiesto a Dio, se avessero avuto la certezza di essere ascoltati. Il meno importante dei tre, forse gli avrebbe chiesto di diventare lui il più potente ma, sia chiaro anche a Dio, giammai per il suo personale tornaconto, perché per il presidente di una cooperativa l’unico tornaconto è rappresentato dal benessere dei Soci. No, il potere lo voleva solo per mettere le cose a posto, raddrizzare i tanti torti subiti dalla “sua” cooperativa per la mancanza di una vision corretta da parte degli altri due. Lui invece, anche se lo consideravano un due di picche con briscola a quadri, di “visioni” ne aveva da vendere; talmente tante, che alla sera non guardava più la televisione per timore di confonderle…
Il problema era la mattina quando si presentava in Cooperativa, e indiceva assemblee plenarie per discutere qualche nuova idea che gli era venuta durante la notte. Non era facile allevare tutti i figli della sua fervida fantasia; anche perché, non aveva le idee molto chiare sull’anatomia di un progetto. Non era raro che pretendesse di farci correre i cento metri a testa in giù e sulla punta delle dita…
… come in cielo così in terra…
Per non indulgere nel desiderio di mollare gli ormeggi e andarmene guardai il sacerdote: di lui dicevano che fosse una gran brava persona, un ispirato dalla fede; cosa che probabilmente era vera, almeno per quanto riguardava l’ispirazione divina; perché ce ne voleva davvero molta di fede per benedire dei registratori di cassa.
Mi venne in mente qualcosa a proposito di un tizio, di cui si racconta avesse preso a bastonate dei mercanti perché facevano i loro sporchi affari nel tempio. In quel nuovo piccolo santuario dei consumi che stava per aprire le porte ai fedeli, i ruoli sembravano curiosamente confusi e non si capiva bene chi stesse facendo i propri “sporchi affari”; chi stesse vendendo cosa e a chi…
Gli unici che sembravano avere le idee chiare erano i futuri clienti del supermercato, in paziente attesa del taglio del nastro per riversarsi in mezzo agli scaffali a fare incetta di prodotti in “offerta”.
Dovevano ringraziare la vision di uno dei tre Presidenti, se nel centro del loro piccolo borgo marinaro stava per aprire le porte un nuovo punto vendita: se fosse dipeso da me, o dal Direttore che mi aveva preceduto in quell’incarico, quel supermercato non avrebbe mai aperto e non per fare un torto agli abitanti del piccolo borgo, ma per una semplice questione di costi e ricavi. I conti erano presto fatti: non c’era un sufficiente bacino primario di utenti; la superficie di vendita, inferiore ai duecento metri quadri, era troppo ridotta per attrarre i consumatori che risiedevano più lontano e comunque non c’era nemmeno un parcheggio adeguato.
C’erano voluti una decina di progetti di layout per cercare di esprimere un assortimento accettabile di prodotti, insieme a un’interpretazione molto ottimistica dei dati di mercato da presentare al Consiglio di Amministrazione. Fino all’ultimo erano sorti problemi e difficoltà oggettive che avrebbero fatto desistere chiunque; chiunque ma non il Presidente che, con un pugno sul tavolo della sala riunioni, aveva decretato d’autorità che quel negozio si doveva fare.
Il perché di tanto accanimento era divenuto chiaro in seguito, quando mi erano tornate alla mente alcune frasi da lui pronunciate, in una delle innumerevoli riunioni che avevano preceduto la decisione finale:
«Aprire un punto vendita davanti al lungomare è come avere un cartellone pubblicitario permanente che verrà visto da tutti…» aveva sentenziato il Presidente quando le proiezioni ipotizzavano la possibilità di subire delle perdite significative.
«Anche se ci fossero delle perdite, le metteremo nei costi pubblicitari generali per i benefici d’immagine che ricadranno su tutta la Cooperativa» aveva poi concluso con un sorriso soddisfatto; orgoglioso di aver tappato la bocca a quei rompicoglioni come me, che sapevano solo sollevare problemi. Forse non erano state le parole esatte da lui pronunciate, ma il significato era certamente quello.
Stabilito, per decreto presidenziale, che l’apertura di quel punto vendita era una sua “geniale” strategia pubblicitaria, senza fare ulteriori obiezioni avevo sorriso e chiuso il blocco degli appunti: non c’erano più dubbi che il mio parere contasse solo quand’era allineato ai suoi obiettivi.
Qualche mese più tardi, quando anche ai meno svegli era ormai chiaro che il Presidente aveva assunto l’interim della Direzione Commerciale, lui stesso aveva convocato e presieduto una riunione allucinante: dodici persone erano state convocate per discutere come si dovevano imbottire i panini da vendere durante la stagione estiva. Il difficile obiettivo di trovare il companatico perfetto, era stato raggiunto dal responsabile commerciale di settore con poche parole. La riunione pareva essersi conclusa con successo dopo una sola mezz’ora; troppo poco per chi di ogni riunione vuol farne un comizio; serviva una trovata geniale e chi, se non il Presidente, poteva trovarla? Dal cilindro che tutti i politici portano in testa, giorno e notte, era presto uscito il coniglio che “noi” avremmo dovuto spellare: come si poteva attivare una sorta di vendita all’ingrosso agli esercenti del borgo. Dodici persone tenute inchiodate per sei ore al tavolo della sala riunioni; un totale di settantadue ore di lavoro buttate al vento in discussioni sterili e vaneggiamenti; diatribe degenerate poi in scontri verbali e rimpalli di responsabilità estranei agli argomenti in questione, ma che davano l’idea dei casini che un politico senza esperienza riusciva a combinare, quando si compiaceva di vestire i panni del manager.
Quella sera, tornando a casa, mi ero chiesto perché non avevo avuto il coraggio di mandarlo al diavolo, invece di manifestare il mio dissenso assentandomi più volte dalla riunione per dedicarmi a cose più serie. Me lo stavo giusto chiedendo di nuovo, quando fu il frate a fornirmi la risposta.
… Dacci oggi il nostro pane quotidiano…
Avrei dovuto fottermene del “pane quotidiano” e andarmene, ma risolvere anticipatamente il contratto che avevo sottoscritto con la Cooperativa mi sarebbe costato trentamila euro di penale: una delle tante porcate che avevo accettato nel nome di una “situazione particolare e difficile ma certamente destinata a risolversi positivamente”. Il Presidente usava spesso quell’argomento; anche per convincere un annegato che un po’ d’acqua non aveva mai fatto male a nessuno…
In due anni di frequentazione di qualche “stanza dei bottoni” ne avevo sentite troppe di false promesse, e anche questo punto vendita non faceva eccezione perché, nonostante i proclami, era nato per dare visibilità al Presidente e per accrescere la credibilità del nuovo management: al minimo storico dopo il mezzo flop della ristrutturazione informativa e informatica.
Anche per quella figuraccia (di cui ero anch’io responsabile in parte), preferivo starmene lontano dai riflettori.
Quasi nascosto da un pilastro, come un clandestino imbucato a una festa, osservavo una scena che i “Padri Fondatori” non avrebbero esitato a definire surreale, per quante contraddizioni conteneva: troppe, per essere una bella storia come avevano sbandierato sul palco i Presidenti. E poi c’erano anche le mie di contraddizioni da mettere nel conto, quelle che mi pesavano di più, perché avrei dovuto dimettermi invece di portare a compimento un progetto nel quale non credevo… Per amore di verità, devo confessare che all’inizio il progetto pareva anche a me una buona idea, ma dopo un po’ di conti avevo cambiato parere. Avrei dovuto oppormi, ma c’era di mezzo quel “pane quotidiano” invocato dal sacerdote e bisbigliato dai Presidenti con cui fare altri conti…
Ubi major minor cessat, mi ripeteva sempre il mio “braccio sinistro” quando m’incazzavo per tutte le stronzate che s’inventava il Presidente pur di fare audience.
“Che tu sia maledetto, fottutissimo pane quotidiano” pensai; “spettro della paura del futuro che narcotizza le coscienze; merce di scambio con cui il potere compra non solo il tempo ma anche la dignità di chi lavora per vivere…”
Soddisfatto per quella bella invettiva mentale che mi era uscita dal cuore mi guardai intorno: cercavo con lo sguardo qualcuno dei lavoratori che, tra pochi minuti, avrebbero fronteggiato l’orda di consumatori che fremevano ai blocchi di partenza.
Incrociai lo sguardo del Capo negozio che mi sorrise. Ricambiai di cuore, con lo stesso sorriso che esprimeva la stanchezza dopo un lungo cammino. C’era anche inquietudine nel nostro sguardo, che entrambi non riuscivamo a mascherare come invece la “lieta” circostanza avrebbe preteso.
… come noi li rimettiamo ai nostri debitori…
Mi chiesi se Cristo non avesse sbagliato galassia quando è disceso sulla terra: come poteva pensare che gli Ebrei, il popolo eletto, prendessero sul serio l’invito a rimettere i debiti? Ma sorvolando sugli Ebrei e sulle male lingue che in quella storia di rimettere i debiti vedono la vera causa della crocifissione, non si è mai visto un creditore che invece di un decreto ingiuntivo manda una bella letterina dove ti rassicura se non puoi pagare. Mai saputo di un creditore che, da buon cristiano (di quelli che tutte le domeniche recitano il Padre nostro), ti ha cancellato il debito per meritarsi il Paradiso…
Mi venne da pensare a cosa avrei fatto se mi fossi trovato un giorno a vantare dei crediti; io, che per rispetto verso me stesso e i pochi veri cristiani della storia, non osavo definirmi tale… Per come andavano le cose e i miei rapporti col Presidente, non era un’ipotesi tanto remota che un giorno avrei vantato dei crediti, avendo constatato, e in più occasioni, quant’era labile la sua memoria quando doveva onorare gli impegni con qualcuno che non serviva la sua causa…
Il mio “braccio sinistro” e qualcun altro, che della gamba tesa ne aveva fatto il gesto atletico preferito, ne sapevano qualcosa di promesse mai mantenute. La cosa buffa è che, pur avendo capito di essere dei condannati davanti al plotone d’esecuzione, continuavano a fidarsi di chi li rassicurava sulla pessima mira dei soldati. Non erano tuttavia gli unici a non aver capito che gli squali della politica hanno imparato a lavarsi i denti quando si travestono da delfini…
… non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male…
Eravamo quasi in dirittura d’arrivo. Tra poco i registratori di cassa avrebbero ricevuto una bella spruzzata di acqua benedetta che, per la proprietà transitiva, avrebbe santificato anche il denaro nei cassetti. Si poteva immaginare un’evoluzione più creativa dei rapporti tra capitalismo, cattolicesimo e comunismo?
Il mio “braccio sinistro” pareva ormai bollito dallo stress; lo sorpresi mentre si concedeva un sospiro profondo e provai per lui un sentimento di simpatia e di affetto. Non ce l’avrei fatta senza di lui a reggere la tensione che, nelle ultime settimane, era diventata insostenibile, peggio che avere un cane rabbioso attaccato al polpaccio.
Mentre le parole del sacerdote continuavano a risuonarmi nella mente, la voglia di andarmene a casa e mandare a farsi fottere tutti premeva sul mio stomaco come un attacco di gastrite. Desideravo con tutta l’anima farla finita con quella posizione assurda, che mi vedeva responsabile di tutto ma senza poter decidere alcunché.
Quella era la mia “tentazione”: piantare tutto in quell’istante e sparire. Mi domandai se quel pensiero così attraente fosse stato indotto da Dio per mettermi alla prova, come vorrebbe la versione liturgica cattolica del Padre nostro (…e non ci indurre in tentazione), o se non fossero le circostanze che mi esponevano alla tentazione di mandare a fare in culo il mondo. In questo caso avrebbe prevalso l’esegesi del vangelo di Matteo 6,9-13 (…e non ci esporre alla tentazione). E se invece fosse stata la perdita di fiducia nei Presidenti la causa della mia tentazione? Se così fosse stato, allora avrei dovuto rivolgere un plauso alla CEI, che nel 2008 ha opportunamente corretto in: “…e non ci abbandonare alla tentazione”.
Decisi che alla prima occasione avrei chiesto un parere al mio pirandelliano “braccio sinistro”: forse lui poteva spiegarmi il perché di quella smorfia triste che vedevo riflessa nel vetro della locandina alla mia sinistra. Doveva pur esserci una ragione che impediva alle mie labbra di sorridere come facevano le persone che avevo accanto, invece di ostinarsi a rimanere serrate come quelle di un bambino in castigo. Possibile che in mezzo a tutta quella folla col sorriso sulle labbra, io fossi l’unico a incazzarmi per le motivazioni che animavano i protagonisti di quella farsa di cerimonia?
… Amen.
Applausi, eiaculata liberatoria generale e sorrisi soddisfatti dispensati dai Presidenti come se fossero stati santini elettorali.
Da vecchio ed esperto portatore della sindrome del salmone, nuotai contro la corrente di persone che si riversava nel negozio e uscii all’aria aperta.
Mentre mi accendevo una sigaretta, mi augurai che alla cena ci fosse da bere in abbondanza; così, al mio ritorno a casa, avrei potuto vomitare con una spiegazione plausibile per mia moglie.