Gluckauf, un film di Remy van Heugten. Con Bart Slegers, Vincent van der Valk, Johan Leysen. Olanda.
Photo credit: International Film Festival Rotterdam
Padre ladro, figlio spacciatore. Nell’Olanda più cupa e plumbea, e più impoverita, un film che mescola i codici del noir al romanzo, e al dramma, di famiglia. Buono. Peccato per qualche eccesso sentimentale. Voto 6 e mezzoPrimo film del concorso, quello in cui si assegna l’Hivos Tiger (i festival, si sa, sono un bestiario: leoni, pardi, orsi, tigri, e se c’avete voglia di giochicciare veloci, associate a ogni animale il festival giusto). Film cuperrimo, di quelli ambientati nelle tristi Fiandre, distese di città e campi nebbiosi da pre-girone di un qualche inferno dei vivi, e non fa molta differenzia che siano le terre fiamminghe del Belgio o, appena oltre confine, nell’Olanda. Qui per la precisione siamo nel Limburgo, la parte bassa, la più a sud, dei Paesi bassi, paesaggi di piombo che solo a guardarli ti stringono il cuore. Il ricordo lontano di quando c’erano le miniere e si lavorava là sotto nei cunicoli, e c’era una dignità del lavoro, e un po’ di soldi. Adesso siamo anche qui nella economia liquida anzi aerea della post produzione, e vediamo una coppia padre-figlio, con il grande che si ubriaca e campa rubando quel che può rubare, e il figliolo ventenne che di mestiere fa lo spaccia, par di capire e vedere soprattutto di design drugs (siamo in Olanda, no?). Se i paesaggi son da suicidio immediato, il paesagio umano è perfino più sconfortante. Che ti par di vedere fantasmi e creature demoniache spuntare da un momento all’altro, come nei più torvi incubi fiamminghi. Con quell’angoscia spessa, quel senso di claustrofobia, di sestini senza via d’uscita, già incontrata in parecchi altri film di queste parti, e mi vengono in mente Bullhead e i Dardenne più soffocati e derelitti, quellidi Il matrimonio di Lorna e L’enfant. La vita ridotta ai suoi elementi psicofisiologici di base: mangiare (malissimo), scopare, ubriacarsi, menare le mani, e una volta compiuto il ciclo si ricomincia. Qui dei due sembra il figlio il più solido, nonostante tutto. Il quale, saputo che il babbo è pieno di debiti con un boss locale, per pagarli si offre come prestatore d’opera al suddetto capataz. Opere che voglion dire minacciare, menare, intimidire gente che non tiene fede ai propri impegni. Sarà per il ragazzo pusher e ora spezzaossa una discesa verso il precipizio morale, e il padre, che per quel figliolo comunque stravede e che non sopporta di vederlo avviato sulla strada dela criminalità dura e spietata (lui è sì un ladro, ma modo suo onesto e dal cuor d’oro), piloterà le cose verso un esito drammatico. Un noir a suo modo assai classico, ma girato nelle maniere del cinema giovane-e-indipendente, e dunque camera mobilissima ma dall’occhio impassibile, realismo potenziato e aumentato a suggerire il massimo suqallore. Con parecchi echi dentro, i Dardenne, certo, ma anche i primi film neri edipici di James Gray, Little Odessa, I padroni della notte, di cui però il regista non raggiunge la grandezza. Benché pieno di meriti, il film indulge, soprattutto nella sua ultima parte, a un eccesso di sentimenti che sottrae forza e peso specifico alla carica drammatica. Per rafne una gran cosa ci sarebbe voluto più rigore, piùimpassibilità. Ma Gluckauf resta opera di rispetto, e potrebbe tornarsene a casa con un qualche riconoscimento.