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ROTTING CHRIST // STIGMHATE @Traffic, Roma – 05.06.2015

Creato il 10 giugno 2015 da Cicciorusso
locandina di SavageArtworks

locandina di SavageArtworks

Questa volta volevo arrivare prima del solito per guardare almeno tre gruppi, ma non avevo fatto i conti con il magnifico autobus che parte dal capolinea dell’altrettanto affascinante e ben frequentata stazione di Ponte Mammolo. Di solito prendo quello da Largo Preneste, che già si sa in anticipo che fa schifo e quindi parti con mezz’ora di anticipo, però mi avevano detto che questa via era più rapida e quindi eccoci qua. Ho aspettato tre quarti d’ora in piedi a Ponte Mammolo e alla fine ho incontrato pure il piccolo Ciccio, che è uscito dal lavoro molto dopo di quanto io sia uscito da casa eppure ha finito per prendere il mio stesso autobus. Alla fine arriverò in tempo solo per gli ultimi due gruppi, perdendomi così Nerodia e Voron. Ricapiterà occasione.

Gli Stigmhate sono una vecchia conoscenza del metal estremo italiano, e usano tutta la propria esperienza per cercare di farci dimenticare, anche solo per cinque minuti, che di lì a poco suoneranno i Rotting Christ. È una missione molto complicata, ma nessuno potrà dire che non ci abbiano provato; e nei tre quarti d’ora a disposizione prendono a schiaffoni il pubblico con un suono spesso al limite tra black e death che comunque ha reso meno spasmodica l’attesa. Mi dicono che il chitarrista fosse nientemeno che Nicola Bianchi degli Handful of Hate, che da qualche tempo coadiuva la band vicentina in sede live: io non l’ho riconosciuto (se era davvero lui) perché non l’ho mai visto senza face painting, abbiate pazienza. Il suono è un po’ impastato, almeno dalle prime file, e questo spezza un po’ le gambe alla tecnica strumentale dei vicentini; un plauso al cantante/bassista che suonava senza plettro, causando i gongolii di Ciccio che è sempre contento quando vede qualcuno suonare il basso senza plettro.

Poi arrivano i Rotting Christ. Per togliersi il pensiero attaccano subito con due pezzi dall’ultimo Κατά Τον Δαίμονα Εαυτού (precisamente Χ Ξ Σ e P’unchaw Kachun), e per un attimo ci guardiamo tutti in faccia con il dubbio di aver capito male riguardo alla scaletta incentrata sui primi dischi. E invece è tutto vero: dopo i doveri promozionali ci si tuffa nella serata-amarcord con The Old Coffin Spirit e The Forest of N’gai, che iniziano a far sbarellare un po’ di gente. The Sign of Evil Existence dà il via agli estratti da Thy Mighty Contract: io raggiungo la prima fila e rimango là tutto il tempo, estasiato, con le varie Transform All Suffering into Plagues ed Exiled Archangels che mi passano attraverso facendomi passare davanti agli occhi gli ultimi vent’anni di vita, tutte le volte che ho ascoltato Thy Mighty Contract in cuffia mentre andavo al liceo, tutte le volte che ho battuto con la mano il tempo di Visions of the Dead Lover  mentre seguivo una lezione all’università, tutte le volte che ho rischiato di spaccarmi la testa su qualche spigolo facendo air guitar su Archon, eccetera. Avevo un poster dei Rotting Christ in cameretta ed è davvero una fortuna che nessuno della mia famiglia conoscesse a sufficienza l’inglese né avesse la malizia necessaria per capire che cosa ci stesse scritto. 

così.

così.

Suonano tutti i vecchi pezzi che suonano di solito, da King of a Stellar War alla cover dei Thou Art Lord, ma in più fanno cose che mai avrei sognato di sentire dal vivo, tipo la suddetta Visions of the Dead Lover che ha uno dei tempi di batteria che più mi ha intrippato in vita mia, o The Fifth Illusion, rendiamoci conto. I primi dischi dei Rotting Christ mantengono tuttora quell’odore di polvere umida, di negozi di dischi di seconda mano, innocenza e ingenuità; ci senti un gruppo con potenzialità enormi con mezzi infimi e penalizzati da una mostruosa lontananza dalla scena, che li porta quindi ad approcciarsi ad alcune cose in modo singolare. I Rotting Christ sono uno dei pochissimi gruppi al mondo ad avere sbagliato così poco, osando così tanto, nell’arco di undici album: potrebbero suonare praticamente qualsiasi cosa e sarebbe comunque un concerto epico, ma così è davvero un tuffo al cuore. Anche perché di solito queste operazioni di ripescaggio vengono da gruppi bollitissimi a cui proprio non va di trovarsi un lavoro serio, mentre i fratelli Tolis sono serissimi ancora adesso, in preda a un furore creativo che non li abbandona dal 1989, e che se qualche volta lo ha fatto è stato giusto per andare al gabinetto un secondo. Questi continuano a fare dischi meravigliosi, non ne fanno mai uno uguale a un altro e oggi sono qui con noi (e non davanti a noi), nell’ambiente familiare del Traffic, con gente che quasi si mette a piangere a sentire certe canzoni, e sembrano davvero i tizi con cui ti identificavi da ragazzino. Sono sempre loro, nulla pare cambiato. Sakis Tolis è proprio il tizio che vorresti come amico per andarci insieme ai concerti con le lattine di birra del discount nel portabagagli. Ogni volta che ci ho parlato sembrava di stare con il cugino grande che ti faceva le musicassette da piccolo; e tutto questo traspare anche dalla loro musica, sempre sperimentale e mai supponente, neanche per un secondo; e così pure i loro concerti sono tra i migliori a cui io abbia assistito. Onore a chi c’era, vagonate di merda addosso a chi non c’era. (Roberto ‘Trainspotting’ Bargone)



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