Gli insoddisfatti per il contenuto del “pacchetto di democratizzazione”, presentato il 30 settembre dal premier Recep Tayyip Erdoğan, sono molti: ma la delusione maggiore è stata quella dei greco-ortodossi (rum in turco, romei in italiano), gli ultimi rimasti – secondo le stime, da 2000 a 4000 – di una comunità in epoca ottomana fiorente e influente. Ancora stavolta è mancato ciò che chiedono da decenni: la riapertura del seminario teologico sull’isola di Heybelianda/Halki di fronte a Istanbul, chiuso dal 1971 per motivi di laicismo e ostilità; tutto è pronto, le aule e i vecchi banchi in legno sono rimasti quelli di allora: solo gli studenti, futuri sacerdoti e patriarchi, sono assenti.
I rum sono cittadini turchi a tutti gli effetti, dal 1923 – dopo la guerra turco-greca e il trattato di Losanna – vivono però in una condizione di inferiorità formale e sostanziale: minoranza poco tollerata, soggetta a vessazioni di ogni tipo e spinta in più ondate all’emigrazione, stranieri in casa loro. Il momento più odioso di questo processo è stato il pogrom del 6 e 7 settembre 1955: vennero distrutti negozi, profanate chiese, attaccate e umiliate persone. L’esodo cominciò allora, inarrestabile.
Non è un vezzo se Méropi Anastassiadou e Paul Dumont, autori di Les Grecs d’Istanbul (Cerf, 2011), hanno dato come titolo all’introduzione del loro saggio “Il rifiuto dell’estinzione”: tenacemente superstiti, per l’appunto. Sono per la maggior parte cristiani ellenofoni, esistono anche dei gruppi di turcofoni e arabofoni di Antiochia: ma il turco lo parlano tutti, l’istruzione – anche nelle scuole private autonomamente gestite – è comunque bilingue.
Negli ultimi anni la loro condizione “sta però cambiando drasticamente”, racconta Laki Vingas: il rappresentante delle fondazioni non-musulmane e uno degli artefici della rinascita della comunità. Le riforme democratiche del partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) stanno infatti gradualmente restituendo ai gruppi etnici e religiosi che compongono il mosaico turco diritti, dignità e visibilità; dall’agosto del 2011, anche parte dei beni immobili – orfanotrofi, scuole, chiese, ospedali, terreni, persino cimiteri – confiscati ingiustamente dall’establishment kemalista a rum, armeni, siro-ortodossi, ebrei.
Come la scuola elementare greco-ortodossa di Galata: trasformata in centro culturale che ospita la Biennale del design, la Biennale di arte contemporanea, concerti di musica classica. Il risveglio culturale è uno degli aspetti che più colpisce: il ritorno del carnevale – coloratissimo e rumorosissimo – nelle vie di Tatavla, il gruppo di musica tradizionale Café Aman – fasıl e rebetiko – fondata da Stelyo Berber, una casa editrice nata nel 2012 – la ISTOS – che pubblica in greco i suoi libri (e il quotidiano Apoyevmatini – primo numero, nel 1925 – non ha mai cessato le pubblicazioni). La riapertura del seminario è stata promessa più volte dal governo: che però pretende mosse reciproche della Grecia a favore della sua minoranza turcofona e musulmana.
Nelle parole di Vingas, “la Turchia sta tornando a essere polifonica”: e i rum di Istanbul stanno contribuendo fattivamente al ripristino dei meccanismi pluralisti di origine ottomana, sacrificati sull’altare del nazionalismo esclusivista; “i turchi stanno riscoprendo il loro passato, la loro storia”: per molti secoli fatta tendenzialmente di condivisione, rispetto, armonia. Il passo successivo, suggerito a gran voce da tutte le minoranze: una nuova forma di cittadinanza, su base puramente civica e non più etnica, da introdurre nella carta costituzionale attualmente in fase di revisione.
Il cemento dei greco-ortodossi è però il patriarca ecumenico Bartolomeo, originario dell’isola di Imbros (all’imbocco dei Dardanelli) e in carica da 20 anni; tra l’altro, anche lui ex allievo del seminario di Heybeliada. E’ il punto di riferimento per tutti i rum, dagli anziani alle nuove generazioni; ha trasformato il patriarcato del Fener in tappa obbligata per i leader politici stranieri di passaggio in città; visita incessantemente piccole parrocchie e celebra messe in chiese chiuse da decenni: come nel monastero di Sümela vicino a Trabzon, per la prima volta – e poi ogni anno – il 15 agosto 2010.
Il fenomeno più in atteso è l’inversione – tutta recente – delle dinamiche demografiche. Tutto merito della crisi: perché al patriarcato e alle varie fondazioni caritatevoli arrivano richieste sempre più numerose da parte di rum emigrati in Grecia che vogliono tornare per trovare un lavoro e recuperare le proprietà immobiliari, o anche di greci – soprattutto giovani e intraprendenti – che sempre per motivi economici vogliono stabilirsi sul Bosforo. Mentre gli adolescenti greco-ortodossi di Istanbul, in precedenza destinati ad espatriare dopo gli studi superiori, adesso sono ben felici di rimanere in Turchia. Una comunità in cerca di nuovo avvenire.