Posted 30 maggio 2014 in with 1 Comment
di Davide Denti
Nel suo Guerra e mutamento nella politica internazionale (1984), Robert Gilpin tracciava una tipologia delle grandi potenze, dividendole in quattro tipi: in decino o in ascesa, revisioniste o sostenitrici dello status quo. La Russia del terzo mandato presidenziale di Putin rientra nella prima categoria in entrambi i casi: una potenza in declino e proprio per questo revisionista, convinta a fare tutto il possibile per restaurare la propria immagine di grande potenza persa negli anni ’90, ma condannata a non riuscirci per mancanza dei fondamentali economici, demografici e istituzionali nonostante i recenti progressi. Tra i quattro paesi dei BRIC, la Russia è ancora l’intruso: un paese che da grande potenza industriale e militare qual era ai tempi del’URSS è oggi declinato ad esportatore di materie prime.
E proprio per questo obiettivo di fondo di restaurazione di potenza regionale, la Russia di Putin ha seguito negli ultimi 15 anni una strategia incoerente e opportunistica, volta a sfruttare i punti deboli del momento di Europa e Stati Uniti per un proprio guadagno relativo, piuttosto che a coltivare una propria identità internazionale ontologicamente coerente, come ha fatto invece la Cina, potenza in crescita e sostenitrice dello status quo. Pechino afferma costantemente da quasi settant’anni il principio della non-ingerenza negli affari interni e non sembra particolarmente preoccupata dalla recente democratizzazione di suoi ex stati clienti come la Birmania dei generali. Non così la Russia.
Così, se nel 1999 Clinton e Blair decidevano per il bombardamento della Serbia di Milosevic senza l’assenso del Consiglio di Sicurezza ONU, la Russia prendeva negli anni successivi la parte dell’avvocato del diritto internazionale, della non ingerenza e del divieto dell’uso della forza; se nel 2001 G.W. Bush lanciava la sua “guerra al terrore”, Putin ne approfittava per riverniciare di legittimità anti-terrorista la sua repressione militare dei separatisti in Cecenia; per arrivare infine oggi a ribaltare tutta la dottrina giuridica e retorico-diplomatica russa, cavalcando un revisionismo etnonazionalista di tipo miloseviciano all’esterno, pretendendo la federalizzazione dell’Ucraina come premio di un’aggressione e annessione, mentre all’interno dei confini della madrepatria russa ogni vagito di decentralizzazione è soppresso in nome della verticalizzazione del potere.
Con le sue azioni, Putin ha dimostrato di sapere agire in maniera rapida e flessible, senza una grande piano ma in base alle opportunità offerte dal momento, trasgredendo tanto il diritto internazionale quanto quello interno (l’annessione della Crimea era illegale anche secondo la Costituzione russa). D’altronde, non avendo un parlamento o una cittadinanza a cui rendere conto in maniera democratica, non ha bisogno di altro che di proiettare l’immagine del “grande leader” come fu ai tempi sovietici, per vedere il proprio indice di gradimento salire oltre l’80%, cosa che il presidente degli Stati Uniti, incalzato dall’opposizione del Congresso, o i ministri degli esteri dell’UE, costretti a cercare una posizione unanime, non possono fare.
Il ruolo della Russia come sabotatore della democratizzazione nello spazio post-sovietico
Come spiega Nelli Babayan, nella sua azione nei paesi dell’”estero vicino” (quella fascia territoriale tra Russia e UE che Mosca non s’è ancora rassegnata a considerare come definitivamente indipendenti nonostante i vent’anni passati dalla dissoluzione dell’URSS) la Russia non intende promuovere un particolare tipo di regime, democratico o autocratico. Piuttosto, si interessa solo a che i paesi satelliti obbediscano e si conformino ai suoi interessi. La de-democratizzazione che ne consegue, come in Ucraina o in Armenia, non è che un sottoprodotto del tentativo russo di riacquisire uno status di potenza mondiale ormai perduto.
Il ruolo da spoiler, sabotatore, della Russia putiniana nei confronti della democratizzazione dei paesi vicini è dovuto, secondo Kataryna Wolczuk dell’università di Birmingham, tanto alla paura di un contagio democratico, che dà luogo ad una sempre più forte repressione domestica del dissenso, quanto alla paura di perdere il controllo sui paesi considerati parte della sua sfera d’influenza quando questi dovessero decidere autonomamente e democraticamente la propria politica estera.
Per prevenire la democratizzazione, spiega Wolczuk, la Russia utilizza strumenti di diverso tipo, dalla propria influenza commerciale o energetica, alla manipolazione di minoranze e territori separatisti, fino allo strumento dell’intervento militare. Nei casi più evidenti, come in Georgia e in Ucraina, la Russia è arrivata attraverso l’occupazione armata a minarne la statualità (statehood) considerata sin dalle ricerche di Linz e Stepan (1996) e Fukuyama (2005) come un prerequisito fondamentale per lo stabilimento di un regime democratico, in mancanza del quale la priorità principale diventa quella della sicurezza e della stabilità anziché la liberalizzazione politica.
Ma le azioni della Russia, continua Wolczuk, rischiano di essere controproducenti e di costituire un’involontario vettore di democratizzazione, spingendo i paesi che ne sono vittima sempre di più verso Unione europea e Stati Uniti. Così in Georgia, dopo il conflitto del 2008, l’opposizione al regime di Saakashvili è cresciuta, e la mancanza di una sponda alternativa ha spinto il governo ad approvare gli emendamenti costituzionali che hanno permesso la prima alternanza pacifica al potere in Georgia. Ugualmente, in Ucraina, le guerre commerciali della Russia contro i prodotti ucraini hanno spinto l’amministrazione Yanukovich a finalizzare l’accordo di associazione e libero scambio con l’UE, e la successiva aggressione ha obbligato il nuovo governo di Kiev a puntare tutto sulle relazioni con UE e USA.
La defezione definitiva di Kiev dai progetti d’integrazione regionale promossi da Mosca, dalla CIS all’Unione doganale euroasiatica, mette in discussione il carattere e il senso di questi ultimi. Anche i suoi alleati più stretti, il dittatore bielorusso Lukashenko e quello kazako Nazarbayev, si sono ben guardati dal sostenere apertamente la destabilizzazione portata dalla Russia putiniana in Ucraina, per timore di esserne le prossime vittime. Con le sue azioni in Crimea e nell’est dell’Ucraina, Putin potrebbe aver vinto una battaglia ma perso la guerra per la restaurazione del potere imperiale russo nel suo vicinato.
@davidedenti
Foto: Arjen Stilklik, Flickr
Tags: Davide Denti, declino, Georgia, Kateryna Wolczuk, Nelli Babayan, revisionismo, Robert Gilpin, Russia, statehood, Ucraina Categories: