Rwanda, come il razzismo cacciato dalla porta rientra dalla finestra

Creato il 31 ottobre 2011 da Dragor

Come sapete, il Rwanda è impegnato in un
grande sforzo di riconciliazione nazionale. E con successo. Questo paese dove
17 anni fa una parte della popolazione tagliava a fette l’altra è diventato il
regno del fair play. Ci si potrebbe credere in Svizzera o in Danimarca, anche
se è più facile essere rapinati a Zurigo o a Copenaghen che a Kigali. Tutti si
trattano con gentilezza, si fanno complimenti, è impossibile assistere a una
lite fra automobilisti perché tutti guidano rilassati, senza la rabbia che
assale i bianchi quando si mettono al volante. Ma non credete alle apparenze.
La lobby di quelli che vorrebbero il ritorno all’ancien régime, quel buon
vecchio regime razzista che non considerava i Rwandesi come cittadini ma come
Tutsi o Hutu, è fortissima. Per questa lobby l’uguaglianza è un sopruso.
Come sarebbe a dire che tutti i Rwandesi sono uguali? Noi Hutu siamo più
numerosi, quindi dobbiamo comandare. Dal 1957 al 1994 hanno sentito questo
refrain, quindi non c’è da stupirsi che lo ripetano come robot. Gli è entrato nel sangue, fa parte del loro DNA. E guarda caso, si tratta di un
“comando” che riempie i cimiteri, così non abbiamo nessuna voglia di rifare
l’esperienza e ci spolmoniamo a dire che i Rwandesi sono tutti uguali, che non
esistono Hutu e Tutsi ma soltanto cittadini, che il divisionismo è un crimine
perché potrebbe portare ai massacri del passato. Davvero non trovate che nel
Rwanda di oggi si stia meglio? Davvero, per stare bene, avete bisogno di razzismo
e apartheid? Per qualcuno sembra di sì.

Non potete immaginare le acrobazie che fa
questa gente per contrabbandare il messaggio divisionista in un paese dove è il
divisionismo è considerato un crimine.
Sentite un po’ Faustin Twagiramungu, un tizio che si è perfino candidato
alle elezioni presidenziali: “Il mio
popolo non rifiuterà di votare per me. Parlate con la bocca ma votate con il
cuore!” Come dire “elogiate pure i successi del governo ma votate secondo la
fratellanza etnica.” Sottinteso: i
membri del governo sono stranieri, perché anglofoni e provenienti dall’Uganda,
dove sono cresciuti in esilio. E infarciva ogni discorso di “mio popolo”, come
se in Rwanda ce ne fossero altri. Ecco un buon sistema per riportare indietro
le lancette dell’orologio sfuggendo simultaneamente ai rigori della legge.

Quando si trovano all’estero, i divisionisti
sono molto più coraggiosi. In Olanda Victoire Ingabire ha scritto in un suo
articolo : “Ogni Hutu dev’essere interahamwe con tutti gli altri Hutu.” Interahamwe significa “insieme”, ma è anche il nome della milizia genocidaria che affettava i Tutsi con i machete e
li bruciava nelle chiese. Ecco il rilancio dell’Hutu Power voluto da monseigneur Perraudin e dal suo delfino Grégoire Kaybanda con tutto il suo corredo di morti. Non c’è da stupirsi che la^‘”martire della libertà”, attualmente processata in Rwanda per complotto contro
lo Stato, abbia cercato di formare una
nuova milizia per attaccare il Rwanda a partire dal Congo e “costringere il
governo a negoziare”, come hanno confessato i suoi complici. Altro che Aung San Suu Kyi rwandese, questa è la riedizione di Hitler. Le mancano soltanto i baffi.

Dragor


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