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Ry Cooder per noi, quelli della mia generazione, ha rappresentato un mito. Sapevamo che aveva suonato con Cpt.Beefheart, con Taj Mahal e con Randy Newman, ed avevamo Let It Bleed e soprattutto Sticky Fingers, dove è suo il leggendario assolo della slide di Sister Morphine. Ma era un mito soprattutto per i dischi suoi, tutti un po' diversi ma tutti capolavori: uno era di polveroso folk delle radici, uno blues, uno tex-mex, uno jazz di New Orleans, uno Rithm & Blues elettrico. Mai accademico o noioso, Cooder sapeva esattamente evocare l'anima di quelle musiche dei tempi andati nel modo più diretto, onesto e sincero. La sua chitarra era virtuosa e affilata come un coltello a serramanico, la sua produzione scintillante, i suoi compagni eleganti, la sua voce evocativa, le sue storie romantiche. Negli anni '80 perse un po' la sua perfetta messa a fuoco ma ottenne i suoi più grandi successi (come Down In Hollywood, Across The Borderline, All Shook Up). Scriveva anche colonne sonore di film come The Long Ryders o Paris Texas. All'improvviso sembrò stancarsi della scena rock, ma in realtà aveva perso l'ispirazione, anche se conobbe il suo momento più popolare con il progetto / documentario di musica cubana Buena Vista Social Club. Sempre più scontroso e sempre più incazzato nelle interviste, è tornato negli anni duemila con una trilogia di storie di Los Angeles come Chávez Ravine, ma senza il fuoco sacro dei giorni di gloria, anche se i fans non lo hanno abbandonato. Quest'anno si è fatto notare per Election Special, un instant record politico di appoggio alla rielezione di Barack Obama e contro il candidaro repubblicano Mick Romney. Una bella copertina un po' pop art ed un po' manifesto, e tante buone intenzioni a cui però non corrisponde un disco altrettanto energico. Con queste premesse avrebbe dovuto essere un disco a la Clash o Blasters, ed invece alla fine non è molto di più di un breve demo di idee poco sviluppate, di canzoni senza groove e soprattutto del tutto privo della sua proverbiale perfetta produzione.
Oggi comprendiamo che della trilogia di Los Angeles faceva parte non solo musica ma anche un romanzo, o meglio una sorta di collana di racconti uniti da un misterioso file comune.
Los Angeles Stories questo è il titolo, contiene quasi tutto ciò che può piacerci: uno stile asciutto e rapido, personaggi vividi delle strada in un modo o nell'altro tutti compromessi con il mondo della musica, la mitica location dei quartieri di L.A. degli anni '50, più o meno quella del vecchio film L.A. Confidential con Kim Basinger. Però, mi dispiace dirlo, non funziona. Ry Cooder è un chitarrista di slide inarrivabile, ma con la penna in mano non è Hemingway né Kerouac ma neanche Bukowski. D'altra parte non è che perché uno sia un grande musicista debba essere anche un buon pilota di formula 1, e Cooder non è che l'ultimo di una lunga lista di songwriters che alle prese con la prosa si dimostra poco più che mediocre. Ha la storia, ha i personaggi, non manca neanche di uno stile, ci sono momenti gustosi e personaggi di carattere, ma in queste pagine non c'è mordente e neanche troppo talento e mano a mano che si procede fra le pagine la voglia di leggere viene meno. Non avessi dovuto scrivere questa recensione avrei interrotto il libro prima di quando alla fine l'ho effettivamente fatto.
(Blue Bottazzi - SUONO)
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