Un grande spazio di terrazza naturale, un campo aiutato dall’uomo a spianarsi, appena fuori del paese. Una vista magnifica. Verso ovest digradano i monti, oltre c’è il mare. Siamo al centro della Sardegna, nel Mandrolisai. Fortezza naturale, luogo di passaggio per le greggi, ma soprattutto sito di arcaiche stanzialità contadine. Sul lato del campo, un lastricato di pietre antiche, cavate, squadrate, posate con sapienza d’uso. Un tempo era il luogo della battitura del grano, adesso è un campo delimitato da una grande quercia. Si scende per un sentiero breve. Con me, donne, uomini, in abiti scuri, da domenica d’un tempo. Una serie di sedie vuote attendono. Poi arrivano le donne, tutte vestite di nero, reggono rami d’albero con biglietti scritti, appesi. Si siedono, sembrano dormire, attendono il silenzio. Poi parte la musica di sottofondo e la rappresentazione inizia.
Una verità percorre il sole del pomeriggio: la guerra sacrifica i contadini. La fabbrica, gli operai, sono necessari alla guerra, ne forniscono materia e sostegno. Non per colpa loro, è il capitale che così decide nella divisione del lavoro sporco, ai contadini morire e combattere, agli operai tocca fornire materia e scopo della vittoria. Sentivo dentro le stesse cose sul san Michele, sopra Gorizia, dove masse immense di contadini si sono macellate a vicenda, 100.000 morti in tre mesi. Molti erano sardi, ma anche siciliani, calabresi, veneti, lombardi, abruzzesi, piemontesi. I contadini si assomigliano tutti, qual’era la differenza quando erano a terra morti, o quando vivevano dentro la terra, nelle trincee che scavavano come a far canali per portare l’acqua nel campo. Nessuna. I contadini conoscono la terra e poi, pensavano i generali, i contadini si riproducono facilmente, i contadini fanno contadini, e con la guerra intanto, si diminuiscono le bocche da sfamare.
Il carso assomiglia a questi luoghi, Anche lì il mare è appena oltre i monti, il territorio è arso d’acqua, pochi boschi, tanta piccola macchia. Terra anche quella di contadini. Ritrovo qui le emozioni di luoghi che conosco, ma ciò che la rappresentazione evoca, va oltre. Un soffio caldo di passato, e gelido d’assenza, di rottura con l’umanità ricevuta. L’archetipo del contadino lo possediamo tutti, eppure sembra scomparso. Dove s’è interrotta la sequenza del mettere assieme lavoro duro ritmato dalle carestie, del con dividere, del trasmettere sapienze e specificità d’un luogo, con le vite?
Karl Kraus diceva che mettendo assieme terra e sangue si ottiene solo tetano, ma lui pensava già all’emergere dei miti della razza, sentiva che i perimetri umani senza accoglienza diventano morte. Qui prima, l’accoglienza era sacra. Ancora oggi lo è.
E’ tutto così arcaico in questo luogo, la quercia è un contenitore di simboli, assieme alle pietre allineate per contenere il raccolto, alla vista dell’universo chiuso dai monti. L’infinito di Leopardi, vissuto ogni giorno. Uscendo per tornare, appena fuori delle luci del paese, sotto una stellata incredibile, ho riprovato la stessa sensazione d’un universo che si mostra e piega verso il basso, e tocca e feconda la positività degli uomini.
La mente va alla Sacre di Stravinskij, anche qui, ad Austis, potrebbero esserci necessità d’ingraziarsi dei riottosi di benedizione, ma è l’uomo, non il dio antropomorfo, che si aggira per il campo. Ci sono due sfere, quella degli uomini che sanno cosa li attende, il rischio e la speranza. E questo è il loro luogo. Poi il contenuto esterno al progetto del vivere, ovvero quello che la fatica e l’ingegno non governano. Lì subentra la paura del conosciuto negativo e la necessità di capovolgerlo in bene, o di almeno limitarlo. Ma oggi quella parte non si sente, si avverte l’uomo che è stato navigatore, guerriero, cacciatore ed ora s’è fermato. Un uomo che vorrebbe dire la ragione della bellezza del vivere in questo posto, raccontando perché, pur con fatica, questo è il suo luogo. Al suo posto, lo raccontano, le opere stanziali, l’aia, le case, la cura degli alberi e dei campi. E con il silenzio e la nenia. Se avessi talento, scriverei un’opera per Austis, fatta di silenzio, occhi per vedere e nenia. Nenia è quella musica che si ripete durante la fatica, nella solitudine. Che mutata arriva alla culla, e poi ancora esce all’aria filtrando tra i denti, passata in altri. Non è il ballo gioioso e bellissimo che seguirà poi nella piazza, non il canto a tenores e neppure le gare di versi a tema tra poeti. No, il silenzio, la nenia, le parole che restano a mezzo, tra bocca e aria, risuonando nelle teste, sono il dialogo dell’uomo con la terra.
La nenia e gli altri sensi sono la compagnia di chi parla con il mondo. In confidenza, e timore d’autorità, gli sussurra, accettandolo anche nelle sue sfuriate, sapendo che non dura. La terra. Un tempo, la terra era ovunque. La terra non era sporca, veniva calpestata con leggerezza, per rispetto del suo ruolo di madre. La terra, oggi così incongrua da uscire dal vissuto, è la terra che parla poco, che quasi non fa rumore, che viene rimossa dall’esistere..
Cercavo di trovare la terra in noi, ascoltando e guardando, davanti alla quercia. Cercavo la terra leggera di vita e il sentire, mi interrogavo sulle sovrapposizioni: dove finisce l’uomo di carne ed inizia l’uomo di terra.
Tutto questo accadeva a s’arzola, ad Austis, ieri.