Ho scoperto Appuntamento a Belleville durante una notte insonne davanti la tv e ne sono rimasta subito inebriata, estasiata. Les triplettes de Belleville, questo il titolo originale, è il primo lungometraggio di Sylvain Chomet (fumettista e regista francese) inquadrabile nel genere dell’animazione; ma non quella “animazione” che ci aspetteremmo da un film del 2003. Chomet, abilissimo disegnatore, ha sfruttato una tecnica basata sulla mescolanza di grafica 2D e 3D, regalando alla pellicola un sapore antico dovuto ai bellissimi disegni, nei quali si nota perfettamente il lavoro manuale, e allo stesso tempo un’aria di novità, grazie alla verosimiglianza dell’animazione 3D. Madame Souza, portoghese di origine ma residente in un paesino nei pressi della Parigi anni ’30, si trova a dover crescere suo nipote, il piccolo Champion, da sola. La nonna si prodiga con molto affetto nel cercare qualcosa che possa far scaturire, nel nipotino triste, un po’ di gioia. Dopo diversi tentativi (tra cui il regalo di un cucciolo, Bruno) riesce ad accontentare il nipote con un triciclo. Passano circa vent’anni: Champion, allenato dalla nonna, è pronto per partecipare al Tour de France, ma durante questo evento nazionale, due loschi energumeni lo sequestrano e lo conducono nell’opulenta città di Belleville.
Per fortuna, Mme Souza si accorge del rapimento e, sfidando numerose avversità (tra cui pneumatici forati e una traversata in pedalò), va, assieme al fidato Bruno, in cerca del nipote, riuscendo ad arrivare fino a Belleville. Gli odori presenti nella grande città, però, non permettono più a Bruno di seguirne le tracce, per cui i due, privi di mezzi e senza una casa, riparano sotto un ponte. Avviene una svolta: l’incontro casuale con tre strane ma talentuose vecchiette, les triplettes del titolo, le quali decidono di aiutare Mme Souza, dandole un posto dove abitare, del cibo e un lavoro nel campo musicale. Passano le stagioni, le ricerche sembrano ad un punto morto, ma ancora una volta il fiuto di Bruno si rivela un aiuto eccezionale: l’anziana donna “recupera” le tracce di Champion e riesce, grazie alle sue doti investigative, a capirne la posizione. Il nipote si trova in mano alla mafia francese che, operando sotto la copertura di un’attività vinicola, mette in atto gare ciclistiche clandestine che alimentano il gioco d’azzardo. Le tre anziane signore, guidate dalla coraggiosa Souza, attraverso difficoltà apparentemente insormontabili, riusciranno comunque, alla fine, a liberare Champion.
Tentare di dare una “definizione” a questo capolavoro è impresa davvero ardua; se dovessi descriverlo con un unico aggettivo, dovrei per forza coniare un neologismo: pluriemozionante. Chomet usa una tecnica di animazione che è già di per sé un misto di innovazione e tradizione, e ci regala una pellicola in cui i molti elementi vengono sempre vagliati attraverso questo binomio. In una sorta di sequenza “a episodi”, è possibile vedere il cambiamento di una panoramica di Parigi: un solo ventennio le fa mutare completamente profilo; si riempie di palazzi, di case, di ponti ferroviari. È possibile rintracciare, in tutto il film, una costante riflessione di Chomet sul cambiamento imposto dalla modernità; spesso il suo genio creativo si sofferma a scrutare i meccanismi degli oggetti, l’uso che hanno, l’uso alternativo che se ne potrebbe fare (uno sbattitore usato per massaggiare), l’uso apposito per cui vengono creati (talvolta negativo, come nel caso del trio di cyclette). La modernità, e i congegni che essa crea, non sono necessariamente negativi, dipende da come si adoperano; si può fare qualcosa di buono (massaggiando, suonando) o si possono creare strumenti di morte.
Altro punto su cui non si può tacere è la caratterizzazione dei protagonisti della vicenda e degli ambienti. L’autore disegna i suoi personaggi in modo caricaturale, esaltando con i tratti esteriori le loro personalità, e sembra che di ognuno di essi sia possibile coglierne l’essenza più profonda. Champion, per esempio, che in quanto personaggio principale, presente dall’inizio alla fine del film, ha più il ruolo del MacGuffin della situazione: della vita sente solo il peso, è depresso (forse per la mancanza dei genitori), trova nel ciclismo l’unico sollievo. Ma questo sport comporta durissimi allenamenti. È emaciato, pallido, con le occhiaie, ma le sue gambe portano, quasi grottescamente, i segni del duro allenamento. Gli scagnozzi della mafia sono rappresentati tutti uguali, intercambiabili, quasi a indicare la cieca obbedienza all’organizzazione criminale di cui fanno parte.
Stessa attenzione ai dettagli è riservata alla ricostruzione ambientale; la Francia di quegli anni è restituita attraverso piccoli preziosismi che ne riportano fedelmente la memoria: Fred Astaire divorato dalle sue stesse scarpe, inferocite dalla fatica; il discorso del presidente De Gaulle al paese in onore della Grande Boucle; l’omaggio a Jacques Tati (a cui Chomet ha dedicato il suo ultimo film, L’illusionista); e poi Fausto Coppi, e Yvette Horner, che dal ’52 al ’63 ha accompagnato il Tour con la sua musica, ricordata nel sorridente personaggio di Roberte Rivette. Ma gli spunti evocativi non finiscono qui: la dimensione onirica, il trio cibo-fame-obesità, la cura nel descrivere il mondo animale, la colonna sonora che ha ricevuto il premio César nel 2004; solo per dirne alcuni. In conclusione, dunque, escluse le mie infinite lodi, non posso che lasciare un’ultima parola: guardatelo.
COMMENTI (3)
Inviato il 24 novembre a 23:12
Ciao, credo proprio che se desideri far leggere la tua recensione all'autrice di questo articolo, la troverai certamente qui http://www.dietrolequinteonline.it/?p=8394%22, il luogo dov'è l'ha pubblicato!:)
Inviato il 11 novembre a 13:34
Votre texte...
Inviato il 11 novembre a 13:28
Eccellente recensione (e non lo dico quasi mai e per nessuno. Solo per informazione, ti posto le mie note, ma il tuo angolo visuale mi convince di più. Complimenti!