
Che il primo ministro del nostro Paese vada a visitare la Silicon Valley è senz’altro un’ottima notizia: non ricordo che un suo predecessore l’abbia mai fatto. D’altronde quella era gente che, molto probabilmente, si faceva stampare le mail dalle segretarie e dettava la risposta.
In un recente post il mio amico Loris Degioanni, cuneese simpatico che ha rischiato e fatto fortuna da quelle parti, ha detto molto giustamente che Renzi dovrà utilizzare il suo soggiorno nella culla mondiale dell’innovazione per “ispirare ed essere ispirato”. La seconda che Loris ha detto sono certo che succederà, così come succede sempre a tutti noi che in Silicon Valley andiamo a lavorare, a intraprendere o semplicemente a cercare di capire.
Non dimenticherò mai ciò che, in perfetto parallelo temporale, avvenne l’inverno scorso: l’Italia era messa sottosopra dalla protesta dei “forconi” contro la crescente povertà di ampie fasce della popolazione. Negli stessi giorni, a San Francisco, decine di persone bloccarono uno dei tanti bus di Google che prendono sotto casa gli impiegati e li portano nella sede di Mountain View. Esse protestavano per la troppa ricchezza, tanta e sempre più diffusa, che stava rendendo il prezzo delle case insopportabile per chi (sembra strano ma ce ne sono ancora) non era diventato milionario con l’ultima IPO.
La Silicon Valley, luogo fisico tanto quanto “state of mind”, ci insegna che solo puntando sull’innovazione oggi si può pensare di avere un’economia in crescita. Innovare è certamente rischioso ma non farlo è letale. Come prova, numeri alla mano, l’ottimo Enrico Moretti nel fondamentale “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori) i territori che scelgono l’innovazione hanno una crescita economica generalmente alta mentre le aree geografiche rimaste legate all’industria manifatturiera tradizionale soffrono e si impoveriscono (Detroit, Torino).
Se fossi Renzi sposerei questa tesi suffragata dai numeri e la farei mia ma stando lontano da chi, ancora oggi, pensa a scimmiottare il modello Silicon Valley altrove. Anche i bambini ormai sanno che copiare quel modello è semplicemente non possibile, perché la sua forza sta anzitutto nella sua storia: dalla fine degli anni ’30 con la nascita della Hewlett-Packard e del centro NASA (a due passi dalla sede odierna di Google) agli anni della guerra fredda in cui il governo federale investì cifre enormi nella ricerca di base e applicata per potersi rapidamente dotare di tecnologie capaci di creare un forte vantaggio competitivo rispetto ai sovietici. Uno stato, quello americano, che finanzia enormemente la ricerca tecnologica e scientifica e poi favorisce con poche chiare regole e giusti incentivi chi vuol rischiare nel portare sul mercato i risultati di tali attività di ricerca (vedasi al riguardo l’interessante “Lo stato innovatore” di Marianna Mazzuccato, Laterza). La nascita dell’era del personal computer, di internet e della cultura digitale è in ultima analisi il frutto di una pianta con radici profonde, innaffiata anche dalla cultura non convenzionale che da decenni alberga in varie forme poco più a nord, a San Francisco, culla via via di poeti beat, hippies, gay, libertari, verdi e quant’altro. Ingegneri e umanisti, questa è la Bay Area.

Se dunque copiare il modello Silicon Valley è da provinciali perdenti, non lo è per niente puntare sulle nostre caratteristiche.
S’io fossi Renzi vorrei un’Italia che si fa ispirare dalla cultura della Bay Area per cercare di innovare ciò che le riesce meglio. Ciò che il mondo si aspetta da noi, in definitiva: non saremo mai capaci di creare in Italia le Apple, le Oracle e le Google (ma neanche le Salesforce o le Whatsapp) del futuro (ci manca la indispensabile scala economica e non siamo in grado di attirare da tutto il mondo i migliori cervelli per farlo) ma potremmo migliorare il nostro pianeta inventando e commercializzando nuove tecnologie hardware, come ad esempio nel settore a noi congeniale della meccatronica. Oppure potremmo unire tradizione e innovazione in settori come l’agricoltura, il design, il turismo. Ben Horowitz, uno dei più famosi venture capitalist della Silicon Valley, sostiene giustamente che il software si sta mangiando il mondo, invadendo ogni area della nostra vita: una opportunità per noi, se saremo capaci di portarlo nei settori dove abbiamo credibilità e know-how.
A San Francisco Renzi incontrerà molti italiani, sono talune migliaia, emigrati per amore delle sfide impossibili: cambiare il mondo divertendosi e possibilmente trovando qualche pepita d’oro. Ne conosco a dozzine e nessuno penserebbe seriamente di tornare in Italia, se non in vacanza o in pensione: è inutile dunque promettere loro cambi di marcia che il nostro Paese non è in grado di fare. Parlo per esperienza personale: lavorare in quei posti con alle spalle un Paese che ha smarrito se stesso, che non ci crede più, che si abbandona ai bunga-bunga e ai privilegi antistorici dello statalismo è una cosa difficile da digerire. Ti vergogni quasi di essere italiano e finisci per rifiutare il tuo Paese e dunque per lavorare in condizioni psicologiche non ottimali. Chi ha scelto di emigrare in posti ad alta vocazione tecnologica è perché non solo sogna ma vuole vivere, adesso e ora, in una società che premia il rischio e non chiede “di chi sei figlio” ma verifica se sei capace a fare e fare bene.
Questa è una società che, se fossi Renzi, vorrei anch’io e mi sembra proprio che anche lui la voglia. E dunque proverei ad ispirare i miei connazionali chiedendo il loro contributo d’idee per cambiare l’Italia in funzione di una società aperta e più giusta, dove crearsi un lavoro sia più facile e cercarne uno, magari a vita, non l’unica, triste, opzione. Vorrei che presto tutti loro, e tutti gli italiani che lavorano e vivono all’estero, tornassero pienamente orgogliosi di esserlo.
Inoltre, essendo Renzi, proverei a portare lo spirito e la cultura imprenditoriale della Valley nella scuola italiana che sto cercando di ripensare. Chi scrive offre gratuitamente alle scuole medie italiane che ne fanno richiesta un programma come BizWorld, creato da uno dei più famosi investitori della Silicon Valley per insegnare in modo divertente ai ragazzi come creare e gestire una impresa. Se fossi Renzi vorrei che programmi del genere fossero disponibili per tutti gli studenti della scuola dell’obbligo nel nostro Paese.
E nella terra dove la maggior parte di chi lavora nelle startup come nei giganti tecnologici non è di lì e non è nemmeno americano ma arriva dagli altri continenti, proverei a disegnare i giusti incentivi perché l’Italia possa attrarre cervelli dal resto del mondo e non solo, come avvenuto negli ultimi decenni, muratori, venditori ambulanti e badanti. Abbiamo bisogno anche di loro perché la maggior parte di noi si ritiene superiore, o almeno inadatto, a certe mansioni. Ma per abbracciare una crescita economica duratura l’Italia, con una popolazione che invecchia, non può che cercare cervelli, e non solo braccia, all’estero e dare loro opportunità appaganti. Come fanno, ogni giorno e certamente non senza problemi, San Francisco e la Silicon Valley.
Adriano Marconetto
Imprenditore nel settore delle startup tecnologiche, tra Torino e la Silicon Valley
@AdrMarconetto