Sakania

Da Parolesemplici

Questa mattina c’era molto fermento. Abbiamo caricato il camion con tutto il materiale per la seconda fase, ma come sempre i tempi in questo paese si allungano come fossero elastici, e inizio a comprendere che se la partenza è prevista per le 7.30 del mattino, posso stare tranquillo che prima delle 9.30 non saremo sulla strada.

Così nell’attesa faccio un ultimo giretto al mercato insieme a Barklay, un giovane dottore congolese col quale mi sono trovato parecchio in sintonia. Barklay dice che mi comporto diversamente dagli altri wazungu (plurale di muzungu) e mentre, chiacchierando, gli dico che sono il quarto di cinque figli, lui fa un sorriso e annuisce, come quando comprendi improvvisamente come risolvere un’espressione. Quando gli chiedo il motivo, mi risponde che è per questo che sono diverso.

In genere gli altri wazungu non condividono le cose; se per esempio comprano un vasetto di nutella al mercato, se lo tengono in camera e se lo mangiano da soli; oppure, quando capita di andare a cena fuori, ordinano soltanto per loro, mentre io qualche giorno prima avevo diviso con lui il mio piatto mentre aspettavamo la sua porzione. Lui dice che questa educazione l’ho ricevuta perché in famiglia eravamo in tanti ed ho imparato a condividere le cose.

Be’ non so se è proprio questo il motivo, ma in effetti uno dei ricordi più teneri che ho di mia mamma è che si è sempre privata di molti bocconi per darli ai figli. Io da bambino non mangiavo tanto, non perché fossi viziato e non mi piacesse il cibo, ma perché non avevo mai fame. Così mia mamma, quelle poche volte che mi vedeva mangiare di gusto, si sarebbe privata della sua intera porzione per farmi mangiare qualcosa di più. Ma crescendo ho avuto anche altri esempi di sacrificio e condivisione. Mio fratello Marcello per esempio si è sempre fatto in quattro per organizzare pranzi in cui potessimo ritrovarci tutti insieme per qualche ora. Non è che navigasse nell’oro, anzi, ma per lui la nostra unione è sempre stata più importante di molte altre cose. A mio fratello Marcello devo chiedere grazie per avermi insegnato come ci si comporta davvero con un fratello, dandogli anche l’anima se ne ha bisogno e soprattutto ingoiando molti bocconi amari ed altrettante delusioni, con la sacra motivazione che un fratello resta sempre un fratello.

Poi ci sono i genitori di Annie, che quasi senza conoscermi mi hanno accolto in casa come se fossi loro figlio e mi hanno permesso di arrivare dove sono ora. Loro mi hanno insegnato l’amore incondizionato, dato dal semplice fatto di essere un essere umano, e mi hanno fatto dono di quella capacità di dare, semplicemente perché é giusto aiutare a chi ne ha bisogno. Osservandoli per diversi anni ho imparato anche che un figlio va sempre appoggiato e, anche quando sbaglia o si comporta diversamente da come vorremmo, bisogna lasciargli percorrere la sua strada, nonostante questo possa far soffrire. Da loro ho imparato che a volte un genitore deve tacere e lasciare che un figlio compia i suoi errori.

Ci sono ancora molte persone, che mi hanno insegnato a comportarmi e ad affrontare le difficoltà. Da Max ho appreso che si può considerare fratello anche qualcuno che non ha il tuo stesso sangue e che, nonostante le scornate e le incomprensioni, c’è sempre un modo per risolvere una situazione difficile, se lo si vuole. André invece mi ha insegnato che qualsiasi esperienza va gustata pienamente, anche se si tratta di una semplice serata, di un film o una partita a Risiko (anche se ammetto di non riuscire a farlo sempre), e a provare a scavare a fondo nelle cose per cercarne un significato che vada al di là dell’ovvio.

Grazie a Salvatore ora so che non è mai troppo tardi per ricominciare e che dietro una superficie ruvida e dura spesso si nasconde un buon cuore. Grazie a lui ho compreso che gli istinti non sempre vanno ascoltati e che la lotta contro la forza che ci motiva a prendere le decisioni più comode può essere vinta.

Simone mi ha fatto capire che è giusto lottare per quello in cui si crede e per quello che siamo e che il pregiudizio fa parte delle persone povere di spirito e di intelligenza.

E poi c’è Annie. Annie è un capitolo troppo vasto e personale per parlarne qui, ma lei mi ha insegnato la forma pura dell’amore; quella che comprende anche il sacrificio. Quella forma d’amore alla quale una persona egoista come me non potrà mai arrivare, ma alla quale credo sia giusto anelare. Se il mondo avesse il cuore di Annie…credo sarebbe un mondo totalmente irrazionale, ma fantastico.

Mentre passeggio nella strada polverosa di Kasumbalesa mi piacerebbe riuscire a spiegare queste cose a Barklay e dirgli che io sono semplicemente la somma di tutto ciò che gli altri mi hanno insegnato col loro esempio; ma certi discorsi non vanno affrontati in mezzo alla polvere ed hanno bisogno di tempo per essere argomentati, e di tempo noi non abbiamo molto.

Dopo aver acquistato un paio di mele, un pezzo di pane e qualche triste salsiccia, simile a quelle che ho mangiato a Butembo qualche anno fa, rientriamo alla base, dove i preparativi sono ultimati. Prendo posto sul pick up insieme a Marilize, la ragazza che si occupa delle finanze, e finalmente partiamo.

Ci sono circa duecentocinquanta chilometri da percorre per arrivare a Sakania, sulle classiche strade congolesi, sterrate e con una sabbia tanto fine da sembrare acqua, al punto da formare un’onda al passaggio delle gomme, ma che a differenza dell’acqua non si deposita, ma vola nell’aria creando una nube di particelle finissime e fittissime, che purtroppo respiriamo da diversi giorni. Ormai comincio ad abituarmi a quel fastidio in fondo al palato, che sembra un mal di gola, ma che è dato dalla polvere che rimane nella bocca e nelle narici per tutto il giorno. Non ho mai amato sputare, ma qui diventa una vera esigenza farlo, perché quando osservo la sabbia mista alla saliva, mi rendo conto che è meglio per terra che nei polmoni e nello stomaco. La jeep attraversa qualche villaggio isolato, ma è evidente che ci stiamo addentrando nel nulla. Intorno a noi soltanto la brusse, cioè la boscaglia, che diventa sempre più fitta man mano che lo sguardo si alza verso l’orizzonte. In mezzo ad alberi dal tronco fine, cespugli e rovi, il tutto rigorosamente reso secco da un sole impietoso, si nasconde Sakania, il villaggio di riferimento tra tutti quelli nel raggio di svariati chilometri, che non a caso dà il nome alla Zone de Santé.

Quando arriviamo all’hotel cominciamo immediatamente a scaricare il camion e ad allestire i vari siti per il materiale: la tenda per tutto l’occorrente della logistica, quella per i congelatori e una camera che fa da magazzino per tutto l’occorrente medicale; esattamente come avevamo già fatto a Kasumbalesa. Questa sarà la nostra base per le prossime settimane, fino a quando la vaccinazione non sarà terminata.

Nella ripartizione delle camere arriva la prima novità: Marilize mi domanda se sono disposto a dividerla con lei. Marilize è una muzungu di origine sud africana e si occupa delle finanze; questo vuol dire che in camera sua c’è una cassaforte con tutto il denaro necessario per qualsiasi acquisto: cibo, bevande, stipendi ecc. Ecco perché nella sua stanza non può starci chiunque, ma allo stesso tempo le camere non sono sufficienti e siamo costretti a ripartirle in qualche modo. Io faccio spallucce; non è che me ne freghi molto; mi basta avere un materasso e lo spazio per il pc, ma ovviamente gli altri se la ghignano di gusto. Per un congolese dormire nella stanza con una donna ha un solo significato a quanto pare…

La seconda sorpresa è che non ci sono materassi a sufficienza, per cui l’ospedale ce ne presta otto. Così mi ritrovo con un materasso dai trascorsi sconosciuti, ma certamente non rassicuranti, gettato per terra su un pavimento di cemento grezzo e polveroso in uno spazio vitale che comunque, nel complesso, è addirittura superiore a quello che avevo a Kasumbalesa. Ma le novità non sono finite perché mi informano che la nostra area di vaccinazione è a centoventi chilometri da qui, per cui tra pochi giorni partirò con il logista, Ando, e non farò ritorno fino alla fine della vaccinazione. I villaggi in cui lavoreremo sono immersi nella boscaglia e tra di loro distano parecchi chilometri; niente elettricità né possibilità di comunicare per telefono, quindi Ando partirà per un sito ed io per l’altro, per ritrovarci soltanto a fine giornata; insomma questa volta sarò davvero solo a gestire la vaccinazione. Stimolante…ma anche preoccupante. L’aspetto che più mi inquieta è la formazione del personale che recluteremo lì, che comporrà il sito di vaccinazione così come l’ho descritto negli articoli passati. Spero di essere in grado farmi capire come si deve e di spiegare a ognuno il suo compito; ci sono diversi occhi puntati su di me in questo momento; è chiaro che si tratta di una prova…

In questa area abbiamo calcolato che la popolazione tra i sei mesi e i quindici anni è di poco più di cinquemila unità. Una quisquilia se paragonata al sito di Muhona, che ne contava più di tredicimila, ma qui le distanze sono maggiori e i villaggi sono isolati, per cui dovremo spostarci durante i cinque giorni di vaccinazione per cercare di raggiungerli tutti. Staremo a vedere. Non mi sento pronto per una responsabilità simile, ma non mi hanno dato molta scelta in effetti…


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