Nel mondo di Adam Smith non c’era la disoccupazione, solo la scelta libera di non lavorare al salario di mercato. I tedeschi l’hanno preso sul serio con i “mini job”; uno stipendio da 400 euro al mese che ha sgonfiato le statistiche sulla disoccupazione. E c’è chi invoca il ritorno alle gabbie salariali… …perchè se gli affitti sono più bassi a Catanzaro rispetto a Milano, se il caffè a Roma costa meno che a Bologna, allora perchè lo stipendio minimo dovrebbe essere lo stesso? Un ragionamento che pochi anni fa la Lega ha cercato di mettere sul tavolo, con scarso successo, e che l’Italia ha abbondantemente testato, avendo introdotto le gabbie salariali subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, poi mantenute fino al 1969. Per il meccanismo delle gabbie salariali, lo Stivale era diviso in 14 aree e la contrattazione dello stipendio minimo teneva conto delle differenze del costo della vita, e al Sud si lavorava a stipendi minimi inferiori del 30% a quelli del Nord.
Profetico: nel 1969, anno di dismissione delle gabbie salariali, esce ‘The Italian Job’ e le vere protagoniste sono le Mini
Un’idea con una sua logica economica, che diminuiva il costo del lavoro nelle regioni del Mezzogiorno, senza – sulla carta – creare disparità nel potere d’acquisto, ma ovviamente congelando (e forse aumentando) le disparità reddituali. Un’idea amata dalle imprese, sempre favorevoli a contrattazioni separate e ad una maggiore flessibilità dei salari. Un’idea poco equa e discriminatoria per i lavoratori, soprattutto se l’aspirazione era quella di una crescente coesione nazionale.
Per una volta, siamo arrivati molto prima dei tedeschi. Il piano Hartz per la riforma del mercato del lavoro alemanno, prende forma infatti nel 2002. C’è il governo socialdemocratico di Schroeder, e Peter Hartz, quello che darà il nome al piano, è il direttore del personale della Volkswagen. Nel piano, fase 2, c’è l’ormai celebre mini job. Un lavoro part-time da 400 euro al mese, con costi nulli per il datore del lavoro. Secondo l’età e la situazione economica del lavoratore, lo stato può poi integrare la cifra con un sussidio ulteriore, fino a raddoppiare o anche triplicare il netto che finisce in tasca al lavoratore.
Questa ardita scelta politico-economica ha fatto sì che il tasso di disoccupazione tedesco, che alla fine degli anni Novanta era uno dei peggiori in Europa, soprattutto per quanto ereditato dall’Est dopo la caduta del muro, sia oggi uno dei più bassi, appena sopra al 5%, un terzo della media europea, inferiore a quello degli Stati Uniti. Ma sul fatto che i mini job e i 450 euro al mese (dopo un recente aumento di 50 euro al mese) siano una panacea c’è tutt’altro che unità di vedute.
Ad esempio, la storia politica di Schroeder è praticamente finita con il piano Harz, con la Merkel a raccogliere i frutti senza prendersi le colpe. Persino l’Economist, che alla fine non è poi un giornale così comunista come dicono, ammette che sotto il tappeto dell’apprezzabile spinta liberista c’è nascosto un mucchietto di polvere. Infatti, se è vero che le statistiche macroeconomiche ci raccontano di un’economia tedesca in salute, il fatto è che il benessere delle famiglie tedesche non è aumentato nell’ultimo decennio. Non solo, ma, udite udite, la famiglia media tedesca è più povera di quella italiana o spagnola, perchè i tedeschi affittano le loro case anzichè possederle. E gli inglesi, un po’ invidiosi (ma persino loro recentemente hanno considerato l’adozione dei mini-job) ritengono che il gigante tedesco abbia i piedi d’argilla, troppo dipendente su poche industrie e sulle esportazioni verso la Cina.
Il mini job è un lavoro precario e di basso profilo. Si parla di 9 milioni di lavoratori, i tedeschi si sono accorti di avere circa il 20% dei lavoratori con scarse qualifiche, solo la Lituania in Europa ne ha di più. Ma non è una soluzione che può durare nel tempo. Inoltre, proprio come le italiche gabbie salariali, sta creando grosse disparità tra le famiglie tedesche, soprattutto tra quelle orientali e quelle occidentali. Il mini-job, che qualcuno chiama McJob, ha
Angela Merkel, Gerhard Schroeder
anche altri lati oscuri. Le imprese potrebbero preferire due McWorkers piuttosto che fare un’assunzione stabile full-time, sulla quale dovrebbero poi pagare i contributi. Si mantiene quindi un esercito di part-time precari, senza dare prospettive future. Circa un terzo dei mini-worker ha cercato di aumentare le ore lavorative, senza successo.
Come sempre, l’economia è una coperta corta. Bassa disoccupazione, grandi disparità. Sembra questo il prezzo da pagare. E in Italia?
Qualche giorno fa, un tassita mi raccontava scandalizzato di una sua amica, anche relativamente giovane, che prendeva 600 euro di sussidio di disoccupazione. Le avevano offerto un lavoro (precario) in un’impresa di pulizie per 700 euro al mese, che la ragazza ha rifiutato. Si trattava, infatti, di “faticare” per 100 euro al mese, il famoso costo opportunità dell’economista. Tralasciando poi ipotesi di lavoretti in nero per integrare il sussidio.
La stessa ragazza, in Germania, avrebbe lavorato a metà tempo a 450 euro al mese per l’impresa di pulizie e ne avrebbe incassate altrettante dallo Stato. La ragazza avrebbe messo in tasca 900 euro anzichè 700, l’impresa avrebbe avuto il lavoratore senza dover versare contributi, mentre lo Stato ci avrebbe rimesso 450 euro (anzichè 600), e avrebbe anche guadagnato un disoccupato in meno nelle statistiche ufficiali. Insomma, non crogioliamoci troppo sulle pagiuzze, dimenticandoci della nostra trave, che peraltro non si trova nell’occhio, ma altrove.
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